31 agosto 2017

Esilî

Giorgio De Carolis era un alieno. Il motivo per cui l’avevano spedito lontano da casa sua, dal luogo in cui era nato e cresciuto, non gli era in effetti noto; adesso, in ogni caso, abitava sulla terra. Gli era stato raccontato che quelle spedizioni o espulsioni avvenivano di tanto in tanto, ogni due o tre generazioni, ufficialmente per eliminare l’eccesso di popolazione che poteva minacciare le risorse del suo pianeta natale. Sulla Terra, girando per biblioteche, Giorgio aveva trovato echi di una vicenda simile nel costume italico della primavera sacra; sulle prime si era rallegrato della propria scoperta - e della propria sagacia ed erudizione -, ma poi, non potendo parlarne a nessuno, aveva smesso anche di pensare alla cosa. D’altra parte, il fatto che venissero allontanati individui singoli, e mai gruppi, costituiva una differenza fondamentale rispetto a quelle antiche migrazioni; ma questo, si mormorava, avveniva per evitare di creare sacche omogenee di scontento e di pressione che avrebbero anche potuto complottare contro la madrepatria, magari rivelandone l’esistenza sui distanti mondi che avevano appena raggiunto.
Non si può dire, in ogni caso, che Giorgio fosse stato abbandonato (qui conviene aprire una parentesi: Giorgio De Carolis si chiamava così per una casuale assonanza del suo identificativo alieno con quel cognome diffuso soprattutto nel Centro Italia; il nome, invece, l’aveva scelto lui perché gli piaceva). La sua terra d’origine gli aveva trovato un’identità, una sistemazione, e in più gli forniva ogni mese sul conto in banca una somma ben superiore a quella che comunque gli garantiva il suo posto di lavoro - amministrativo in un liceo linguistico; in qualche modo la burocrazia aliena e quella terrestre avevano dialogato bene in questo campo. Il problema era, semmai, l’alimentazione. Sul suo pianeta Giorgio era abituato alla distribuzione mensile di un’enorme quantità di cibo, da consumare in un solo pasto; a quell’unico pranzo avrebbe poi fatto seguito, sulla sua lontana galassia, qualche giorno di letargia e settimane e settimane di duro lavoro senza distrazioni e perdite di tempo. Il governo centrale aveva deciso da millenni che quello era il miglior modo di vivere e alimentarsi e il metabolismo locale si era evoluto in quella direzione. Purtroppo sulla Terra a Giorgio mancava il tempo e la maniera di preparare un manicaretto paragonabile; e non c’erano, soprattutto, pietanze adatte a quello scopo, mentre ogni cosa sul suo pianeta natale era pensata per adattarsi in maniera ottima a quel rito. Così, dopo una serie di tentativi diversi, tutti falliti, Giorgio si era deciso a divorare le ciccione. Le avvicinava in certi locali che aveva individuato nel corso degli anni, le corteggiava, le portava a casa e le mangiava, avviluppandole e poi inglobandole pian piano. La cosa era positiva dal punto di vista nutrizionale, dato che la carne umana, o quel particolare tipo di carne umana, si avvicinava molto al pappone di acqua, fibre e proteine che gli appioppavano sul suo pianeta; in più, tra tutte le sparizioni che potevano avvenire e sicuramente avvenivano in città, per lo più non a causa di Giorgio e dei suoi appetiti, quella di una ragazza timida e obesa ogni mese si notava ben poco: nessuno pareva conoscerle, apprezzarle, sentire la loro mancanza. Se ne andavano in silenzio, come in silenzio erano vissute. Anzi, Giorgio aveva notato che per un momento il suo corteggiamento pressante e deciso - aveva fame - le rendeva felici: quando credevano che quell’uomo le voleva davvero quelle donne si illuminavano di gioia e sorpresa (Giorgio non lo diceva per consolarsi o assolversi; non c’erano, sul suo pianeta, tali concetti e tali esigenze. È solo che le cose stavano così). Salivano a casa sua per fare l’amore con un cuore così colmo di gratitudine che mangiarle non era soltanto un delitto, era prima di tutto un tradimento. E i tradimenti erano conosciuti e condannati anche nello spazio profondo, e Giorgio, satollo e mostruoso com’era dopo aver consumato l’omicidio, un poco ne soffriva.
Per il resto, la sua dieta gli consentiva di ridurre al minimo i contatti umani (per quanto si potesse parlare di contatti umani riguardo alle relazioni di Giorgio) con i suoi colleghi. Non partecipava alle cene, prendeva raramente il caffè o l’aperitivo al bar, solo una manciata di volte si era fatto coinvolgere in feste e calcetti; viveva appartato, come forse è naturale per chi è diviso da una diversità così irriducibile, e gli capitava soltanto, non più di un paio di volte al mese, di recarsi in quei locali di musica latino-americana senza lo scopo di approcciare una cicciona. Peraltro in quei rari casi era lui stesso il primo a chiedersi cosa l’avesse spinto a presentarsi in quel posto: e non gli era chiaro se si stesse costruendo un alibi, si stesse invece scoprendo, o se fosse solo lì per divertirsi.
Una sera però aveva fame. Il motivo della sua presenza nel locale gli era dunque chiarissimo. Allo stesso modo erano chiarissimi, di un celeste inevitabilmente buonissimo e ingenuo, gli occhi della ragazza che adocchiò subito, appena entrato nel locale. Era, come doveva essere, grassa; ma si muoveva bene, pareva perfino contenta di sé, cosa che a Giorgio parve sorprendente e che quasi lo fece desistere dall’approcciarla. Lo convinsero tuttavia gli occhi di lei: i quali erano non soltanto celesti e ingenui, ma soprattutto bovini, ciò che lo persuase che si trattava di una ragazza grassa e infelice come tutte le altre, inesistente come tutte le altre e come tutte le altre, in fondo, mangiabile.
Ballarono, poi lui le chiese di uscire; fuori, nel giardinetto del locale, lui le avrebbe chiesto di fare l’amore, lei le avrebbe detto di sì, lui l’avrebbe portata a casa e mangiata. Tutto questo lui lo pensò mentre la teneva per mano e l’accompagnava fuori, in un attimo, e non senza un qualche rammarico; non tanto per l’omicidio, quanto per la natura effimera delle cose, che per la prima volta lo addolorò (stava forse diventando troppo terrestre).
Solo che lei gli disse di no, che non avrebbe fatto l’amore con lui; e prima ancora che lui avesse il tempo di stupirsi e di smarcarsi, lo baciò con foga. Poi gli disse in un orecchio che aveva le mestruazioni e, mentre ancora aveva la bocca sull’orecchio di lui, gli aprì la patta dei calzoni. Poi si abbassò, lì in quel giardinetto scuro e fetente, e prese in bocca quello che, nella condizione di esiliato stellare di Giorgio, era tutto sommato un pene umano. Giorgio non seppe che cosa pensare. Più tardi, senza davvero rifletterci, disse di sì quando lei le chiese, con il brivido di una ragazzina, se si sarebbero rivisti.
Si rividero una settimana dopo, Giorgio la invitò a casa sua. Là, per la prima volta in vita sua, lui fece l’amore. In seguito lei si trasferì da lui; la casa era spaziosa e in un certo senso richiedeva il tocco di una donna. È passato molto tempo da allora; Giorgio si è abituato, non senza sforzi e volontà, a nutrirsi di farro e delle altre cose sane e biologiche che cucina lei, che ha deciso di dimagrire. Ha scoperto che, riempiendosi oltre misura di quinoa e fibre, si ottiene un effetto non troppo dissimile da quello che gli procuravano le precedenti abbuffate, sebbene debba adesso sedersi a tavola con cadenza più che giornaliera (d’altronde non gli dispiace stare a tavola con lei). Lei non vuole figli; lui, appartenendo a un’altra specie, non può averne da lei. Ha comunque pensato che, quando lei inevitabilmente cambierà idea, potrà in qualche modo farsi replicare il Dna dell’organismo di cui ha assunto l’identità arrivando sulla terra e ovviare alla faccenda. Sul suo pianeta lo sapranno fare, pensa Giorgio, e intanto accarezza senza accorgersene l’idea molto terrestre di paternità e di amore.

19 aprile 2017

Il secondo ippopotamo più grande d'Europa

Ho incontrato tempo fa - ormai devono essere passati mesi - la macchinina del circo. Si trattava, in realtà, di un’automobile di dimensioni normali, e anzi può darsi fosse un camioncino; ma mi è venuto di scrivere “macchinina” per dare di quel mezzo un’immagine un po’ buffesca, ridicola, che evidentemente associo (a torto) al circo in quanto tale.
Su quell’auto, a meno che non fosse un camioncino, erano montati degli altoparlanti; e la voce faceva pubblicità al circo scalcagnato che era appena giunto nella città dove abito. Può anche darsi, tuttavia, che quel circo non fosse affatto scalcagnato, anzi che io mi sia perso qualcosa col non andare a vederlo, e che me lo figuri difettoso e decadente solo per un mio preconcetto, di cui probabilmente dovrei vergognarmi. In ogni caso la voce vantava, fra gli altri spettacoli e attrazioni, l’ippopotamo più grande d’Europa; e mi è sovvenuto un mio amico, o forse dovrei dire un mio conoscente, che per combinazione era anche (ed è tuttora, per quanto ne so) il secondo ippopotamo più grande d’Europa.
Definirlo conoscente mi risulta a un tempo onesto e doloroso. È onesto, perché io non sono suo amico o non credo di esserlo, e doloroso, perché mi spiace e mi costa non essere riuscito a rimanere tale. Non tutti hanno bisogno di amici: certe persone, per assenza di stimoli o di necessità, si bastano ampiamente. Ma lui, benché fosse vasto, non si bastava. I suoi erano gente onesta, tranquilla, ottusa perfino, sia pure solo in questo senso, che non potevano capirlo; e d’altra parte lui era complesso, o solo troppo grande, comunque impossibile per quei signori buoni e limitati (la madre aveva occhi enormi, acquosi, azzurro chiaro; possibile che sia per quegli occhi azzurri e mansueti che la definisco buona, io che poi non l’ho mai conosciuta davvero).
Uno penserebbe, almeno così mi sembra, che quella di secondo ippopotamo più grande d’Europa sia una condizione che si raggiunge con il tempo, anche lavorandoci un po’ su; ma lui, per quel che ricordo, lui lo è sempre stato. Eravamo piccoli - ma non più per molto: ci trovavamo in quell’età in cui alla spensieratezza dei bambini si aggiunge un vago disagio, indefinito, e i giochi si fanno più frenetici, perché si avverte che qualcosa incombe, qualcosa che tutto muterà -, eravamo piccoli e lui era già il secondo ippopotamo più grande d’Europa. Come tale era noto e presentato, tanto che scrivere il suo nome non aggiunge nulla al racconto, e anzi lo renderebbe impreciso e nebuloso. Piuttosto mi spiace non ricordare il nome di sua sorella, che giocava con noi in quel crepuscolo d’infanzia e che aveva ereditato dalla madre gli occhi celesti e mansueti; più tardi ci piacque, a noi ragazzini di passaggio alla giovinezza, equivocare quell’apparente mansuetudine, di nascosto sempre dal fratello, e credere chissà cosa (senza peraltro che nessuno di noi abbia mai ottenuto conferma delle proprie sciocche fantasie).
Per un’estate, sul limitare estremo della mia e sua infanzia, io e il secondo ippopotamo più grande d’Europa fummo amici. Lui aveva avuto in sorte un ruolo, evidentemente, ma non gli era stato affidato un destino o un’utilità corrispondenti. Forse per questo aveva bisogno di amici: per rivelarsi utile nel momento in cui qualcuno gli avesse voluto bene, o solo per riempire in qualche maniera il vuoto che era il suo destino. Quell’estate io gli fui amico e potei chiamarlo per nome; da amico, infatti, mi era indifferente e insignificante il suo ruolo. Non è che fossimo soli: eravamo anzi un bel gruppetto di amici, ma io e lui eravamo sempre i primi ad uscire, ad andare a chiamare l’altro, e gli ultimi a rincasare. Rimanevamo seduti su una panchina o su un prato finché non era passata da un po’ e non più rimandabile l’ora di cena e del rientro. Senz’altro per questo, e per un’ovvia sovrapposizione a quei ricordi di eventi che furono invece successivi, se ripenso a quell’estate ho in mente un crepuscolo e un muro, un muro vecchio, medievale, su cui cresceva l’erba. Tutti elementi romantici, che pure hanno avuto un fondo di verità.
Io fui il primo a fuggire. Mi chiamò l’adolescenza; passò l’estate e cambiai anche scuola e città. La mia adolescenza fu quella abbastanza tipica di chi si richiude in sé, e a quei pochi che ritiene degni di sapere (o che sceglie per i propri lamenti) comunica che quella solitudine è una costrizione, una prigione imposta da tutti quegli altri che non lo capiscono; quando in realtà non c’è nulla da comprendere, e quell’adolescente è solo un bruco come miliardi di altri bruchi, che si nasconde nel bozzolo per uscirne, anni dopo, uomo fatto. Fatto come, non ha senso indagare qui.
Fui di colpo appartato e lontano e lui di colpo tornò, le poche volte che me lo nominavano o lo nominavo, il secondo ippopotamo più grande d’Europa. Egoista come può esserlo solo un adolescente malinconico, per anni non chiesi e non mi interessai di lui. Perderlo di vista, questo non era possibile, ingombrante com’era; ma feci quanto in mio potere per prenderne le distanze. Oggi che ripenso a lui so con certezza che il mio allontanamento, che era la partenza di un amico, del suo solo amico?, gli tolse senso e utilità, in un età in cui tutti avrebbero diritto a sentirsi necessari. Ma allora pensavo solo a me, e anzi era quello il motivo della mia fuga. Essere solo mi piaceva e mi era indispensabile, e che facesse male a qualcun altro, quando nessun altro mi era visibile, non poteva neanche balenarmi.
Del secondo ippopotamo più grande d’Europa, già mio amico, ho infine saputo, con colpevole e inevitabile ritardo, che si è trasferito in un altro paese; in un altro continente, per essere più precisi. Quando l’ho scoperto mi è sembrato ovvio che stesse fuggendo anche lui, che cercasse di mutare il suo destino confondendosi in un altro ambiente e in un contesto che non gli apparteneva e che non poteva riconoscerlo. Ma quel giorno in cui ho incontrato la macchinina del circo ho cambiato idea: non è il destino, quello che ha voluto cambiare, ma il suo ruolo, quello che l’ha descritto e condannato finora. E vedendo me stesso su quella strada di una città che non è la mia, ma in cui abito, con il mio bambino in braccio e la macchina del circo che ormai gracchiava in lontananza, ho riflettuto che forse era così: che forse è più facile e lieve cambiare un ruolo, e che magari il mio amico aveva ragione.

05 agosto 2015

Gabbie

Se un visitatore occidentale fosse giunto, un giorno di mercato degli inizi del secolo scorso, in una città del Turkestan cinese posta ai margini del grande deserto grigio, vi avrebbe certo trovato, in bella mostra sulla piazza principale, una gabbia di legno. All’interno della gabbia il turista o il viaggiatore avrebbe visto - perché c’era effettivamente - un uomo in piedi, con le mani legate dietro la schiena; la testa di costui sporge dalla gabbia, non di molto, attraverso una piccola apertura, che è in realtà un collare: il collo dell’uomo è stretto da quell’apertura che pare falsamente liberarlo, e la testa non può scendere verso la gabbia. Il pavimento della gabbia è formato da diverse assi; ogni giorno ne viene tolta una, cosicché l’uomo all’interno deve sempre più tendersi e infine appuntare sulle dita dei piedi l’intero peso del corpo, perché, se non facesse così, morirebbe di rottura delle vertebre cervicali o di strangolamento. Il viaggiatore che vedesse quella scena la interpreterebbe come la crudele esecuzione di un condannato a morte; e tornerebbe a casa, o telegraferebbe, ché non può la sua indignazione attendere i lunghi mesi del ritorno, invocando una spedizione delle potenze civilizzatrici nel Turkestan cinese, in quella città e nei territori circostanti, per impedire quella vergogna, quella cancellazione dell’umanità, quella negazione di tutto ciò che è progredito e bello, che lui ha visto in quella gabbia.
A quella ipotetica visita, a quell’eventuale richiesta, farebbe seguito l’ingresso dalla strada d’occidente, e forse dal nord, attraverso una nuova ferrovia dai binari larghi, di truppe dagli stivali chiodati e dai larghi caschi coperti di teli bianchi; quelle truppe, decise a distruggere l’arretratezza, distruggerebbero le gabbie di legno, le botteghe del bazar, i padiglioni della fiera, fucilerebbero gli uomini vestiti di bianco che protestassero, e sicuramente quegli uomini protesterebbero, e li fucilerebbero comunque, pur non capendo assolutamente le parole e il senso di quelle proteste, ma equivocandone i gesti o avendone paura. Le prime fucilazioni porterebbero ad accoltellamenti in vie strette e sordidi suburbi, a soldati stranieri spariti e ricomparsi a pezzi; e ogni soldato sarebbero cinquanta o cento uomini in bianco cacciati e ammazzati, le loro case, piene di donne e bambini, violate, i loro quartieri colpiti dai cannoni e spazzati via. Polvere gialla e rossa si alzerebbe da quelle case secolari, e il deserto grigio entrerebbe nella città.
Ma l’uomo che effettivamente è in quella gabbia deve solo dire “Basta, basta! basta così!” e lo tireranno fuori. Non è, come al solito, indubbiamente, un’esecuzione; è uno scherzo stupido di due amici sciocchi o un esperimento sociologico (ma nel Turkestan cinese questa espressione non è giunta e non significa ancora nulla; si utilizza ancora la prima). E quando arriveranno gli scarponi chiodati e le baionette dalla via d’occidente, se dovessero arrivare, quell’uomo sarà in una casina proprio in quel quartiere, dalla parte della periferia che non guarda il deserto, e sorbirà un tè con gli amici, dicendo stupidaggini o commentando il miele con cui hanno preparato qualche biscottino. Lui sarà lì, si toccherà il collo, e intanto a due passi dal suo scherzo stupido i soldati entreranno in città; sulle carte degli ufficiali sarà scritto di cercare le gabbie nella piazza del mercato e fucilare chi ne impedisse la distruzione.
Speriamo allora che quel visitatore non arrivi mai in città, un giorno di mercato, e che per il futuro quegli amici trovino degli scherzi migliori, e che nessuno venga mai stretto per il collo in una gabbia dal pavimento di assi, ogni giorno più lontano, ogni giorno più doloroso.

24 gennaio 2014

Tre storie cinesi

Quando i barbari a cavallo invasero il grande Nord, e poi coprirono il piatto Ovest come la sabbia del deserto ricopre, portata dal vento, le rosse città di confine, l'imperatore pensò a lungo. Poi spedì contro di loro il generale più saggio di cui disponesse, e questi batté i barbari e li ricacciò nelle profondità del deserto; senza inseguirli, ché ne sarebbe stato risucchiato e distrutto, e non è lecito distruggere ciò che appartiene all'imperatore. Il generale mostrò così la propria saggezza.
Quando questi tornò a corte, l'Imperatore gli offrì la propria gratitudine, che chiamò infinita; ugualmente infinita, di conseguenza, era la ricompensa che sarebbe spettata al vincitore.
Il generale recava con sé dall'Ovest una scacchiera, sola compagnia delle sue lunghe notti negli accampamenti; la pose davanti a sé, e davanti all'imperatore, e trasse da una tasca un chicco di riso, che accomodò con cura nella prima casella. Di fianco a quella, nella seconda, aggiunse altri due chicchi di riso, e poi quattro e poi otto. Non appena i chicchi divennero sedici, una singola casella faticò a contenerli; allora il generale alzò lo sguardo verso l'imperatore e parlò: "Se il mio esercito fosse composto di infiniti soldati, non saprei come disporli in campo, né comandarli, e non potrei affrontare nessun nemico; simile alle mie schiere, dunque, sarà anche la ricompensa che chiedo, perché io riesca a goderne e non vi perda invece la testa". Detto questo, il generale continuò a posare il riso sulla scacchiera, in linee dritte e precise, facendo di ogni casella un campo recintato.
L'imperatore fece raccogliere quei chicchi, li diede ai suoi funzionari perché li contassero, e ordinò che ognuno di quegli acini fosse mutato in oro e assegnato al generale. Terminata la conta e consegnato l'oro, il riso fu riportato all'imperatore. Questi, la sera a cena, chiese una semplice zuppa.

***

Un piccolo fiume color paglia scorreva accanto a un villaggio, veloce; nel fiume c'erano trote, e un vecchio ogni mattina sedeva sull'argine, a duecento passi da casa, e pescava quelle trote.
Dalla sponda opposta del fiume, ogni mattina, arrivava una vergine esile ad attingere acqua. Sorrideva al vecchio, e il vecchio le rispondeva. Piaceva a quest'ultimo osservare la giovinezza e la purezza della ragazza, nei suoi gesti puliti e nel suo sorriso aperto e innocente, da bambina.
La vergine veniva da un altro villaggio e il vecchio non la conobbe mai. Non seppe che andò sposa a un contadino anziano, non conobbe le liti con i parenti di lui e i colpi della cinghia sul corpo di lei, quando questo si rivelò sterile.
Ma se il vecchio avesse saputo tutto questo, avrebbe mutato il proprio giudizio sulla vergine? E sarebbe cambiato il sorriso di lei? In verità, non lo sappiamo.

***

Nella città di Harbin, un uomo fu condannato a morte per l'assassinio di una donna. L'accusato sostenne in giudizio di essere innocente, né cambiò la propria versione e le proprie urla durante le torture di rito; ma il cadavere della donna esisteva ed era stato visto da tutta la città, e tutta la città aveva sofferto per quel crimine. Perciò i giudici non ebbero scelta e decretarono che fosse messo a morte.
La notte prima dell'esecuzione, bussò alla cella del condannato un vecchio monaco. Sebbene fosse il secondino, ovviamente, a dover aprire la porta, pure il monaco bussò; e questo piacque all'assassino.
Il monaco sedette sulla terra della prigione e disse al condannato che, tutto sommato, avrebbe fatto meglio a dichiararsi colpevole. Non gli chiese dell'omicidio e non ascoltò le sue spiegazioni; affermò solo, lentamente e pronunciando piano certe parole, che qualsiasi pena, a ben vedere, si attaglia assai meglio a un reo che a un innocente. E quando la pena è la morte, continuò il vecchio, meglio morire con serenità, sapendo di pagare il fio dei propri errori, piuttosto che andarsene urlando e reclamando una giustizia che non si farà più in tempo a vedere. Ogni uomo che viva in mezzo ad altri uomini, d'altronde, esiste in quanto gli altri vedono e valutano le sue azioni; e capita tutti i giorni che questi fraintendano un gesto o una parola, o attribuiscano a qualcuno nel bene e nel male gesti mai compiuti. La più grande disponibilità verso l'umanità è allora dar loro ciò che si aspettano e ciò che credono.
La mattina dopo, sul carro che lo portava al patibolo, il condannato ammise le proprie colpe. La folla assiepata per le strade, che fino ad allora aveva rumoreggiato e aveva lanciato uova e sassi, si fermò d'incanto. E chi aveva odiato l'innocente che negava le proprie colpe smise di odiare il colpevole che pagava in prima persona; parve a tutti che il cadavere della donna, che tutti avevano visto e sentito come una ferita personale, avesse ora un corrispondente che gli garantiva la pace.
Quella fu, nella città di Harbin, una giornata felice.

14 dicembre 2012

Lettera aperta al sindaco di Forlì

Forlì, 14 dicembre 2012

Caro, caro Sindaco,
    come sta? Io - se se lo domanda -, io abbastanza bene, anche se ho tante cose che mi frullano in testa. E, lei lo sa, quando le cose frullano c'è caso che non quaglino. Mi scusi per il tono informale, anche un po' dimesso e familiare, se si vuole: ma la sento come un vicino di casa, un amico, uno a cui, appunto, rivolgere parole sincere.
Le piace il rap, caro Sindaco? A me, devo dire, piace tutt'ora; come da un vecchio innamoramento mai consumato, Lei ha letto e studiato e lo sa meglio di me, non se ne esce; anche se gli anni passano per tutti, e quelle che erano le nostre passioni diventano fissazioni, e noi sempre più bianchi e grigi (a volte penso che ogni quattro o cinque anni bisognerebbe fucilare gente a caso, per mantenere un certo agonismo fra la popolazione: ma chi firmerebbe tale provvedimento? Chi potrebbe togliere alle spose dagli occhi castani i loro amanti e mariti? Chi mai farle soffrire?)...
Non è di questo, tuttavia, che voglio parlarle. Le dirò invece che oggi ero in giro in centro, nella nostra amata città, e osservavo, scrutavo, prendevo nota; qualcosa, vede, ho studiato anche io, qualcosa so fare. E più mi guardavo in giro, più mi convincevo che ci fosse un che di profondamente e nascostamente sbagliato. Vede, caro sindaco, a Forlì siamo centodiciottomila e novecentosessantotto, stando agli ultimi dati; ma lei va per mercatini come me, gira per le strade come me, avrà notato che qualcosa non torna. Io, caro sindaco, sono sempre più persuaso che siano stati sottratti con l'inganno e portati da qualche altra parte un certo numero di forlivesi; mi sono anche permesso di indagare un po' sui comuni confinanti (ché più in là di un certo spazio non avrebbero potuto trascinarli, o qualcuno avrebbe notato il triste lamento dei forlivesi in catene, privi d'amore, di patria e di piada erta), e a mio parere la colpa è di quelli di Predappio, ancora suggestionati dal mito effimero della potenza demografica. Lei sa, hanno avuto pessimi maestri... Ma lei, in ogni caso, lei vada, giri per la provincia, cerchi di capire dove sono e che fine hanno fatto i nostri cittadini; non sia, magari, troppo poliziesco, ché i romagnoli sono permalosi e in generale non amano gli sbirri. Ma li troverà, comunque: non possono essere lontani.
E quando li avrà individuati e riscattati li riporteremo indietro: e il loro rientro in città sarà una festa, come quella volta che catturammo il carroccio dei bolognesi a San Procolo... Ma lei ha studiato, lei sa.
Allora, con la città di nuovo piena di forlivesi, avremo folla anche ai mercatini natalizi; e se dovessi aver voglia di comperare del croccante, la sera del 14 dicembre a una bancarella in piazza, non dovrei più sentirmi come se avessi ancora tredici anni, come se l'estate stesse finendo, come se un banco verde mi aspettasse di nuovo in un'aula di scuola.
Siamo cresciuti, è vero, caro sindaco: siamo cresciuti, ma nonostante questo abbiamo ancora bisogno di forlivesi intorno, di forlivesi che ci rendano sopportabile la solitudine e che ci facciano credere che qualcuno, in ogni momento, ci vuol bene senza condizioni.
Buone feste, caro Sindaco.
In fede,

Forlivese '80

27 settembre 2012

Gli amori (bozza per un racconto lungo)

Multi sunt vocati, pauci vero electi.


Il tenente Federico B. sedeva alla finestra, accanto alle tende polverose. Era notte ormai inoltrata, sebbene non fosse facile stabilire che ore fossero (il tenente si era parzialmente spogliato e aveva lasciato l'orologio d'oro, che il padre gli aveva donato al momento dell’arruolamento, sul mobile di fronte al letto). La luna doveva essere quasi al massimo della propria ascesa, giacché il cielo, dove le nubi erano meno spesse, era illuminato d'un azzurro freddissimo; e le nuvole, quando passavano a coprire quegli squarci, diventavano di metallo a causa dei raggi.
Federico stava alla finestra, il naso lungo ma sufficientemente diritto quasi a contatto del vetro; e il chiarore era tale che un cecchino nemico avrebbe potuto scorgerlo e colpirlo, se solo avesse potuto avvicinarsi a sufficienza. Ma la vecchia villa padronale, in cui si era installata una parte raccogliticcia e confusa del comando regionale dell'armata, era abbastanza lontana dal fronte da escludere un rischio del genere. Nulla impediva invece, durante le rapide puntate offensive che avvenivano su quelle trincee fluide, che un colpo di cannone o di mortaio trovasse la propria via fino alla villa; era già successo in passato.  Ma morire in quel modo sarebbe stata una fatalità e non un'imprudenza, e delle fatalità non ha senso preoccuparsi.
Colui che cercava con lo sguardo era distante decine e decine di chilometri, o forse poche centinaia di metri; forse tornava, o forse una pallottola nemica, sparata controsole alle prime luci dell'alba, l'aveva inchiodato per sempre a una posa stupida, gli occhi socchiusi da miope, e a una uniforme stracciata e non più cambiata per l'eternità. Federico attendeva il ritorno del proprio amico, il maggiore C., che dieci giorni prima il comando aveva spedito a occupare e fortificare la spiaggia non lontana, in previsione di uno sbarco di forze alleate che sarebbe dovuto avvenire nelle settimane successive. Si conoscevano da pochi mesi, da quando - giovani sottufficiali - erano entrati entrambi da volontari, più per l'impulso della giovinezza che per avere compreso o accettato gli ideali della propria fazione, nell'Armata che combatteva quella guerra civile. Insieme avevano trascorso molte notti nel fango e nel gelo in quell'inverno che pareva non finire mai, e insieme erano diventati soldati rispettati, acquistando con le mostrine anche una finzione di vita adulta che non era la loro e che non avevano mai vissuto; giacché della vita non sapevano niente, e anche il loro coraggio tanto ammirato era un coraggio da ragazzi, ignaro di troppe cose.
Ma non era stata la guerra ad avvicinarli: anche in tempo di pace la loro amicizia sarebbe inevitabilmente scoccata, perché non nasceva da contingenze o da gratitudini, ma da una immediata e profonda fratellanza fra due cuori, che le azioni comuni e le lunghe chiacchierate, fatte per lo più per necessità del mestiere e per vicinanza forzata, non avevano mutato né snaturato.
I due, semplicemente, si volevano bene; il piccolo Federico, dai capelli castani, freddo ed estroverso, estremamente bello nell'uniforme grigia, voleva bene a C., emotivo, taciturno, alto e in fama di brutalità; fama comprensibile, d'altronde, in un uomo che apriva bocca coi propri soldati quasi soltanto per spingerli all'assalto e per punirli. E C. ricambiava in tutto quel sentimento, d'altronde senza fatica e quasi senza rendersene conto. Erano diventati ufficiali nello spazio di pochi scontri, per bravura propria e per la falcidie dei vecchi comandanti. Per mesi, quando avevano potuto dormire, si erano sdraiati accanto; ma questa regola, iniziata al fronte e portata avanti tacitamente anche alla villa, dove la stanza di un figlio maschio li aveva accolti entrambi, si era interrotta da qualche settimana.
C. aveva conosciuto Lina. Lei gli si era fatta avanti durante una requisizione di denaro e provviste - contribuzioni volontarie, si chiamavano all'epoca - e davanti a una decina di uomini armati aveva difeso la propria casa e la propria famiglia, esigendo un rispetto e una forma che in tempi di guerra nessuno ricordava più. C. aveva avuto paura di quella donna bionda e dura; anche questa una paura da ragazzino, già innamorata. Poi la famiglia di lei se n'era andata, nascosta in un settore più tranquillo o forse emigrata all'estero, e Lina era rimasta nella casa spoglia, in quella cittadina già più volte persa e ripresa dai due eserciti in lotta. C. andava a trovarla a volte, e allora era lui a portarle piccoli regali sottratti alle cucine del comando. Infine lei lo seguì al comando, dove lavorava da cuoca, infermiera o lavandaia, a seconda delle necessità di quel mondo maschile.
Federico la osservava. Doveva essere più grande di loro - un anno o due; Federico non ammetteva che potesse essere semplicemente più cresciuta, più matura. Aveva un mento duro e largo e guance quasi infossate; gli occhi celesti erano allungati e parevano puntare all'esterno della testa, come le sopracciglia un po' scure. Le orecchie erano troppo grandi, e la cosa si notava quando la donna, intenta al lavoro, legava i capelli. Anche la bocca era larga, però carnosa, le punte della labbra leggermente tese verso l'alto. Anche così era bella. In circostanze normali, pensava Federico, una donna del genere avrebbe preferito lui, tanto diverso e complementare quanto C. le era affine. Ma la guerra evidentemente cambiava anche le leggi dell'amore. Su queste e altre cose rifletteva Federico, a notte fonda, prima di addormentarsi da solo nella stanza del figlio.
La partenza di C. aveva acuito la durezza di Lina. In quei giorni Federico aveva trovato naturale cercare la compagnia di lei, non per confortarla, ché allora non esistevano parole di conforto per nessuno, ma perché lei e lui erano uniti in una stessa attesa e perché Federico era attirato dalla donna, i cui silenzi parevano intrisi dello spirito dell'amico. Era sempre Federico, perciò, a parlare di C. (con discorsi tanto inferiori all'effettiva realtà del loro bene): Lina a volte storceva la bocca, infastidita. Il tenente attribuiva quel disagio alla tensione e alla paura; il suo amore ingenuo non concepiva ancora la gelosia né sapeva riconoscerla. Poi una sera a cena - trenta ufficiali al tavolo e una donna bionda a servirli - erano comparsi, come sputati dalla notte, due messaggeri infangati: gli uomini affidati a C. si erano spinti a Nord, avevano detto, per soccorrere le truppe del generale Manzi, trascinate dal nemico su una penisola sabbiosa e quasi priva d'acqua. Il compito di C. e dei suoi cinquecento soldati era quello di rompere un lembo dell'accerchiamento e lasciar sfilare in quel varco gli assediati: ciò implicava una resistenza di molti giorni contro forze sempre più soverchianti man mano che il fronte si accorciava. Molti occhi si voltarono in silenzio verso Lina: ma lei continuava a servire, imperturbabile nei suoi tratti duri, gli occhi, le labbra, i capelli ugualmente tesi, ugualmente nervosi.
Quella notte Federico le fece visita: ma rimase muto, rassegnato alla legge di lei. Scoprì in Lina una docilità e una sollecitudine mansueta che non si aspettava: l'attribuì alla pena, alla paura, alla tenerezza, all'amore per C. che la donna riversava in lui. E lui sentì di doverla amare di rimando, per fedeltà all'amico e perché non è lecito rifiutare e disperdere l'amore, allo stesso modo in cui è peccato gettare nella spazzatura il cibo preparato da mani affettuose.
Soltanto la mattina dopo il piccolo tenente capì di essere caduto in trappola: se pure in obbligo di accogliere l'offerta d'amore, rifletteva, avrebbe dovuto vedere il frutto avvelenato nella condotta servile di lei, in quella sottomissione che non poteva accettare, perché era usurpazione, era slealtà, era una macchia indelebile davanti agli occhi di C. A quel punto dubitò anche della sincerità dello slancio di Lina, dubitò di averne indovinato la vera natura giudicandolo amore: e seppe di essere due volte colpevole, davanti all'amico e davanti a se stesso.
Più tardi andò in cucina. Si sedette al tavolo a cui stava anche Lina, si tolse i guanti e l'aiutò a pelare patate. Ogni tanto la guardava. Quando l'ebbe osservata a lungo decise che non c'era bisogno di iniziare quel discorsetto che con tanta fatica, lui così sciolto ed estroverso, aveva messo assieme davanti al grande specchio della camera. Sopra lo specchio stava una palma, appesa lassù chissà quante Pasque prima; e in quella casa di soldati anche la palma aveva assunto il colore metallico delle uniformi e dei proiettili di mitragliatrice. Federico pensò che Lina era come quella palma: come quegli ufficiali ragazzi si era fatta d'acciaio, meschina e coraggiosa, pronta a ogni bassezza pur di restare fedele a un proprio codice d'onore; un onore certo personalissimo, ma vivo e coerente, ingenuo come le loro giovinezze. E l'onore di Lina le aveva proibito di amare C. meno di chiunque altro al mondo.
Dietro una porta, picchiettava a gocce larghe e pesanti la pioggia estiva del telegrafo. Federico, che in quei giorni di stasi dei combattimenti nel settore meridionale non aveva compiti di servizio, entrò nella stanza e chiese se ci fossero novità, con un tono tanto distaccato da stupire il telegrafista. Questi ebbe l'impressione che la domanda fosse stata fatta con lo stesso spirito con cui si chiede come va o si parla del tempo, tanto per iniziare una conversazione: come se C. non fosse bloccato dal fuoco nemico su colline melmose a cinque chilometri dal mare, obbligato a tenere quell'impasto di terra e schegge finché Manzi non fosse passato; come se non esistessero quell'ordine, quelle basse colline battute dall'artiglieria, la guerra stessa e tutte le preoccupazioni dell'uomo. Come se non esistesse più l'amicizia. Ad ogni modo, non c'erano novità.
Federico si ritirò in camera. Si svestì in parte, perché faceva ancora freddo e perché voleva essere pronto qualora gli avessero ordinato di guidare il plotone a coprire il ritorno di C. o a recuperarne il cadavere. Poi si addossò alla finestra a scrutare il buio della sera, ben sapendo che la luna l'avrebbe rischiarato, salendo al centro del cielo. Quando fu abbastanza chiaro cominciò ad avere paura delle ombre: in una nuvola, in una sentinella lontana, nella fuga disperata di animali che erano stati domestici Federico vide altrettante coppie di messaggeri galoppanti verso il comando: gli uni annunciavano il ritorno di C., gli altri la sua morte; altri ancora rientravano cantando, e Federico non riuscì a capire se fosse tutta una fantasia o se nel sogno avesse incorporato il coro di due sottufficiali ubriachi, giù nel salone. O il canto di Lina intenta a lavare le camicie di C.
Assieme a quei fantasmi, e quasi altrettanto spettrali nei loro cappotti ridotti a stracci bagnati, giunse anche un manipolo di sbandati. Provenivano dall'esercito del generale Manzi. Dopo una settimana di battaglia disperata, ridotti ormai quasi in riva al mare, avevano avuto il dono inaspettato della rottura dell'assedio. Erano stati fra i primi a gettarsi in quel varco e non si erano più rivolti indietro ad attendere nessuno. Non sapevano quanti altri uomini sarebbero ritornati, né conoscevano la sorte del reparto che li aveva salvati. Furono messi a dormire nella stalla, il cui tepore accolsero con gioia. Quella notte il tenente non li vide neppure.
In nessun momento Federico si augurò la morte dell'amico, e non soltanto per ovvio affetto, ma anche giacché non credeva che questa gli avrebbe evitato spiegazioni e imbarazzi: dal suo punto di vista, dovendo considerare terminata la loro amicizia, che C. fosse morto o vivo non faceva alcuna differenza. In ogni caso era comunque perduto.
Certo lo spaventava il pensiero delle battaglie che avrebbero combattuto insieme e delle lunghe nottate che avrebbero trascorso fianco a fianco sui pancacci e sui giacigli di fortuna. La convivenza gli pareva insopportabile, ora che alla loro tavola di inseparabili venivano a sedersi anche le loro colpe: quelle di Federico, che non aveva capito nulla, e quella di C., che aveva lasciato l'amico solo.
A tratti lo atterriva la durezza di C., che era stata pesante in condizioni normali (anzi: nelle condizioni idilliche di un'amicizia fra due giovani uomini) e che forse sarebbe stata in grado di schiacciare un colpevole. In altri momenti, in parte cedendo al sonno, si figurava C. vivo o morto ma comunque muto, e lui, in guanti bianchi, costretto a spiegare a quell'idolo imperturbabile le proprie mancanze di piccolo essere umano. Ma non gli uscivano che suoni senza senso, sillabe ripetute all'infinito, deliri.
In quell'agitazione, si addormentò o piuttosto cadde in un sonno scuro. Dovette dormire un'ora scarsa, perché al suo risveglio la luce della luna non era mutata di molto.
Il suo primo pensiero da sveglio fu che l'amico stava tornando: ne gioì. Non aveva dimenticato le paure di poco prima, ma non gli parevano più valide. La sua amicizia con C., in realtà, non era mai nata e non poteva morire. Non erano diventati amici in seguito a un avvenimento particolare o per via di un comune modo di sentire; c'era nel cuore di entrambi un sentimento che durava da sempre e che avevano riconosciuto e chiamato amicizia solo dopo il loro incontro. Ma non era stato il loro incontro a creare quella passione; questo ora era chiarissimo al piccolo tenente.
Perciò, che C. fosse vivo su un camion, accanto ai lamenti di un ferito, forse ferito anch'egli, o che giacesse sulle colline con la bocca piena di fango, non contava più: la loro amicizia viveva. E sarebbe vissuta nel cuore di Federico fino al suo ultimissimo battito, e forse un attimo dopo, quando già l'anima si avvia alla bocca.
Anche se il giorno era lontano, Federico si lavò e si preparò con cura. Quel momento tanto atteso, che ora percepiva vicino, lo rinfrancava e lo rendeva più pronto e sollecito. Si chiese se Lina si sarebbe sentita, se si sentiva sola. Non seppe darsi una risposta: il suo cuore gli era precluso e inconoscibile. In questo Lina differiva da tutti gli ufficiali della villa.
Dal limitare della caligine bianca e fittissima che saliva dal fiume lontano uscirono, sul principio fatti anch'essi di nebbia, poi man mano guadagnando la natura umana, messaggeri vestiti di grigio. Federico abbottonò l'uniforme dello stesso colore e scese incontro all'amico.

categorie:

27 agosto 2012

Manoscritto trovato a Forlì

Per strada non c'è nessuno. La giornata è calda e immobile e i vestiti mi si fondono addosso; non sono certo uscito per una passeggiata, d'altronde, ché sarebbe stata un'idea balzana, oggi, ma ho bisogno di fare compere.
Il cielo è azzurrissimo, assolutamente privo di quella foschia tipica delle giornate afose, e ogni cosa sfavilla in piena luce: in una giornata simile, io credo, non possono esistere inganni.
Mentre cammino con passo piuttosto rapido, vedo un foglio in terra; giace fra luce e ombra, al limitare della stretta e benedetta fascia di marciapiede ombreggiata dagli alberi. Mi avvicino, con l'idea di prendere il foglio con due dita e buttarlo via, infastidito come sono dalla sporcizia in strada: ma noto, chinandomi, che il foglio non è lurido né calpestato, e soprattutto che non si tratta di un foglio, bensì di diverse carte da tenute assieme da una graffetta, tutte vergate con una grafia maschile e nervosa. Allora soffio sui fogli e li spolvero con la mano, sebbene in realtà siano puliti come appena gettati.
Poi torno a casa, tenendomi fra la luce e l'ombra.

***

È strano. Mi sembrava una lettera, e non è una lettera, ma una sorta di diario, irto di annotazioni a ogni margine (come se la prima stesura sia risultata sempre sommaria e insufficiente) ma non altrettanto ricca di date. Non capisco molte cose, non mi tornano molti tempi: però non ho ancora letto bene tutto... E poi mi parevano pochi fogli, e invece è un bel malloppo: con tutta la luce di stamattina, pure mi sono sbagliato nel valutarne la consistenza. È curioso anche questo.
Inoltre, manca il luogo in cui queste pagine sono state scritte, che sembrerebbe indispensabile in una lettera (ma non è una lettera, è - circa - un diario). Anzi, ho parlato troppo presto: un luogo c'è, vergato nell'ultima pagina alla fine di tutto, ed è questa città di provincia, grassoccia e assonnata; ma perché scriverla alla fine, come in un testamento? O almeno credo che i testamenti siano fatti così: non ne ho mai letti (o scritti, a dire il vero).

***

Sostiene di averla trovata in mezzo alla strada, al crepuscolo, distesa in quel viale che conosco bene (ci passa tutta la città in continuazione). Sostiene che fosse ferita, e che nessuno si trovasse in quei paraggi - era freddo, forse gelava già. Non aveva modo di chiamare un'ambulanza, e comunque se ne sarebbe vergognato o non ci sarebbe riuscito (questo è oscuro). Allora lui l'ha presa e sollevata, una donna ferita, forse fratturata..., e l'ha portata a casa. Follia, sì.
A casa, l'ha, l'avrebbe, stesa su un letto e avrebbe cominciato a curarla: aveva i capelli biondi incrostati di sangue.... Da quanto tempo giaceva a terra? Da quanto tempo nessuno transitava in quella strada trafficatissima? Eppure lei era lì ed era ferita, fratturata forse. E l'autore di questo diario l'ha portata a casa, dove viveva da solo. Da solo, sempre solo.
Sostiene di aver pregato per lei. Sostiene di aver pregato di nuovo dopo anni, forse decenni.

***

A quanto pare era davvero fratturata (un braccio, forse anche una gamba? La parte inferiore di una gamba sotto il ginocchio? Non è chiaro). Le ha strappato delle corde da non si capisce dove, e fin qui è incredibile ma passi, ma per il gesso? Per il gesso si è arrangiato, non è poi così difficile, sono materiali che tutti hanno in casa... C'è anche un disegno. Vien voglia di provare se davvero...
Il sangue nei capelli è solo un taglio in testa, abbastanza profondo ma non così vasto: le rimarrà una cicatrice. I capelli di lei, lavato via il sangue, sono bellissimi.
Lei apre gli occhi e sorride, come se fosse felice di quella pulizia. Poi di nuovo li richiude e torna nel sonno inquieto dei feriti.

***

Il gesso si è asciugato bene. Mi sorride, dice il diario, mi sorride di nuovo. Ogni ora, ogni giorno che passa la donna migliora. Adesso tiene gli occhi aperti a lungo, mangia qualcosa e si guarda attorno. Non sa dov'è, non lo capisce (che lingua parla?), però è visibilmente contenta di essere viva.
Mi sorride.

***

A quanto pare le cure inventate e arrangiate funzionano bene. Gli arti fratturati man mano tornano a posto, senza dolore, al loro posto originale, preciso. La donna non parla italiano, però, e non è sempre facile comunicare solo sulla base di uno sguardo e di un sorriso; tuttavia, non c'è al momento nessun'altra possibilità, e si va avanti così. Le necessità della ferita sono, d'altronde, piuttosto chiare.
L'uomo la fissa a lungo, quando è sveglia, sorridendole, ma anche quando dorme, sorridendole lo stesso. L'uomo solo nella casa solitaria sente nascere un sentimento, un'idea, finora nemmeno ipotizzati. Così pare che siano andate le cose.

***

Con l'inevitabile lentezza di queste faccende - come se qualcuno conoscesse la normalità in queste cose; come questo diario ne sapesse qualcosa! - la donna bionda guarisce. Forse è tempo di togliere il gesso (i gessi?). Di sicuro mangia, mangia e si guarda attorno. Sorride un po' meno: non capisce dove sia capitata, non ha chiaro il proprio destino. Suppongo sia normale per una donna, in simili circostanze ma anche in generale, una certa inquietudine, una certa paura (è paura, questa?).
Inizia a parlare un po' d'italiano; no, in realtà ripete le parole - poche, e stranamente specifiche; ma è normale, data la situazione - che ha sentito. Lui le sorride sempre e ancora, lei ha capelli bellissimi e il suo viso non è da meno.

***

Sembra, è sicuro, che lei se ne voglia andare. Sta bene? Non sta bene, non può ancora stare bene del tutto, ma vuole andar via. Non capisce quella casa vuota, non capisce, o capisce, i sorrisi di lui. Non...
Lei si alza dal letto. La fisso mentre cammina, la ascolto mentre mi parla, calma, decisa, e non le sorrido più. Tutto scritto, in una grafia minuta, furiosa, ma per me comprensibilissima; tutto incancellabile ed evidente. Lei se ne vuole andare - io la amo - vuol portare via i suoi capelli biondi. E questa casa di nuovo vuota? Presto?

***

Lei è scomparsa, sparita, non c'è più traccia di lei - fisicamente - in questa casa: ma resta tanto, resta il suo colore, il suo sorriso, una certa aria bionda che prende la luce filtrando dalle finestra. Pure la casa è vuota. Pure la casa, la mia casa, e io...
Alzo la testa dai fogli: questa è la mia storia, questa è la mia casa. E queste carte, cosa sono? Una confessione, una lettera, un testamento? Non lo so, non lo so più, ora. So solo che è tempo di assicurarmi che questi fogli - ecco, in un cassetto - e da un altro cassetto, da un altro cassetto, il mio revolver. Poi vedremo. Ora vedremo.
Ma adesso basta.

Forlì, 27 agosto 2012

05 luglio 2012

Per una donna distante

Ti amo fino a qui, amore mio:
oltre, dolcezza mia, proprio non posso.
Seguirti è un problema troppo grosso.
Che vuoi farci? Così son messo io;
così son messe adesso le mie cose.


Dunque te ne vai, te ne vai sola.
Ti lascio con dei fiori alla stazione;
e legger queste righe sul vagone,
chissà, magari un poco ti consola.
O solo ti consolano le rose.


Ma sappi: il vento, quando batte in faccia,
partì da me per dirti che ti amo;
lo stesso canta il passero sul ramo.
Lo ronza anche la mosca che si scaccia
e l'eco ch'al mio nome ti rispose.


E sono nel tuo letto anche se manco.
Mi faccio carne ad ogni tuo sospiro
e per sentire meglio il tuo respiro
appoggio il capo nero al petto bianco;
amore mio che splendi fra le spose.

27 giugno 2012

Sommerabendsspaziergang

L'uomo uscì dalla stazione, lo zaino su una sola spalla per sudare meno. Fuori dell'atrio, lo accolse il sole.
Era una sera d'inizio estate, illusoria come lo sono tutte quelle sere, perché lasciano credere che ci siano ancora ore di luce da vivere e godere; quando invece è già tempo di tornare ai propri domicili, a volte quasi di corsa, prepararsi da mangiare e andare a letto. E il giorno dopo ancora al lavoro, senza domande e senza recriminazioni, al sorgere di un giorno di cui si sarebbe vista solo la fine. Ma le cose dovevano andare così, ed era normale e quasi rassicurante.
L'uomo, obbediente, si diresse a casa, camminando all'ombra di un viale alberato.
Al primo incrocio, però, di nuovo il sole lo sorprese: ma a quell'ora i raggi laterali, anche se caldi, erano gradevoli. L'uomo si fece allegro e cominciò a rimuginare fra sé quelli che si chiamano "pensieri leggeri". Non comprese o non rifletté in quel momento che quei raggi erano già moribondi (l'estate è una stagione morente, in cui pian piano si secca e incattivisce la freschezza della primavera), sebbene morissero di pochi minuti alla volta, sebbene quei minuti - ancora - fossero senza importanza.
Gli venne in mente, invece, un dialogo con un ignoto interlocutore a proposito delle polo (portava una polo): nella conversazione lui analizzava con arguzia i vari tipi di polo, e in particolare i modelli a due o tre bottoni; quest'ultimo modello era bocciato inappellabilmente, in quanto, se uno ci pensa, non c'è modo di combinare l'allacciatura di tre bottoni su una polo senza apparire assurdi o inadeguati. Poco dopo aver portato trionfalmente a termine questa conversazione immaginaria, l'uomo si accorse con singolare lucidità, ma senza sentimenti di alcun genere, che da un po' di tempo non pensava più a nulla.
Forse per la stanchezza o per la stagione, proprio lui, che era un tipo di norma riservato, a volte riflessivo, occasionalmente perfino acuto, dovette prender atto di essere completamente vuoto. La cosa non lo sorprese: andava così, e tanto bastava. Lo colpì di più un profumo improvviso, buono, che gli arrivò mentre camminava sotto gli alberi; gli parvero acacie - ma portavano ancora i fiori? - sparse in un qualche giardino che non vedeva. Di certo era un odore primaverile, giacché l'estate non ha profumo; o, se ne ha, sono odori forti e già quasi marci. Gli alberi sotto cui passava (ne strappò una foglia per sincerarsene) non sapevano di nulla.
Attraversò la strada sulle strisce pedonali; un'auto lo aspettò per qualche secondo (due pedoni erano passati un momento prima) e lui la ringraziò, non tanto per i secondi guadagnati, quanto perché gli era stata risparmiata l'umiliazione di quando le auto ripartono sgommandoti in faccia. Lo infastidiva l'umiliazione e la necessaria sottomissione, in ogni circostanza; era uno strano tipo di orgoglioso, poco competitivo e poco rancoroso, che non aveva problemi ad accettare la propria inferiorità nei confronti di qualcuno (che fosse per mancanza di intelligenza, di impegno, di mezzi, di fortuna), ma che non sapeva sottomettersi. La differenza, tuttavia, è sottile, e neanche lui sapeva sempre tratteggiarla con esattezza.
Entrò in un parco, ormai vicino a casa. Si sedette su una panchina, da solo: a volte gli pesava non avere amici in quella città in cui si era trasferito da poco, ma stavolta andava bene. Non aveva nulla da dire a nessuno. Tornò con il pensiero alla propria assenza di pensieri. Ma a cosa non pensava, si chiese? Non pensava soprattutto, e prima di ogni altra cosa, a quello cui un giovane pensa sempre; per lui invece era come se quello stimolo non esistesse più, almeno a livello conscio.
Da molto tempo ormai non aveva una relazione, o una simpatia, o un qualcosa che stesse a metà; da molto tempo viveva ignorando quel bisogno. Non che gli mancasse il sesso: quello si può sempre trovare, e lui non era brutto né vergognoso. Ma il resto - l'amore, la condivisione -, il resto semplicemente non c'era. E non ci pensava più, in un certo qual modo.
Si accorse, quasi d'improvviso, di essere molto solo. La cosa però, gli parve, non gli pesava, anzi: si sentiva sereno, nonostante tutto. Non felice: la felicità è un'altra cosa, anche se lui certo non avrebbe saputo definirla (ma l'avrebbe tuttavia riconosciuta; o almeno credeva). Finì per giudicare perciò quella sua condizione paradossale come il segno di una maturità finalmente raggiunta, e se ne compiacque con se stesso.
O forse, invece, gli balenò infine alla mente, forse la felicità è solo questo: perenne vivere, senza domande, senza pensieri, senza pentimenti.

categorie:

09 maggio 2012

Fine di una giovinezza

Si erano conosciuti un pomeriggio d'inverno, quando ormai la sera era scesa sui marmi bianchi della loro università: le loro strade erano già diverse e divergenti, nel momento del loro primo incontro, e non ebbero mai occasione di frequentarsi davvero, né venne in mente a nessuno dei due di sacrificare la libertà e la futilità della propria giovinezza a quel sentimento indistinto che li legava. Continuarono perciò a vivere distanti di corpo e di cuore, e non diedero mai una scadenza, né fissarono degli impegni che non avrebbero avvertito come legittimi.
Tuttavia non si persero mai di vista; e per anni si rincorsero con il corpo e con il cuore. Quando lei si invaghiva di lui e dei suoi gesti gentili, lui aveva altro da fare e non poteva in alcun modo corrisponderla; quando era lui a dichiararsi, lei lo respingeva: ma lo faceva in una maniera particolare, come se dicesse "Ora non è proprio possibile, amico mio; ma siamo giovani, abbiamo tempo per ogni cosa e ogni cosa verrà".
La ragazza era alta e magra, ma le sue cosce erano toniche e muscolose (probabilmente per aver praticato un qualche sport, da ragazzina, nella sua cittadina in mezzo alle montagne; lui questo non lo sapeva, non ne avevano mai parlato); aveva capelli straordinariamente lisci, pelle chiara e delicata e un viso dolce, con occhi verdi profondi e buoni. Quel viso dava un'impressione falsa, giacché l'animo di lei era duro e orgoglioso, e poco incline al perdono.
Il ragazzo possedeva invece tratti morbidi. Da vicino lo si giudicava senz'altro di bell'aspetto, ma dopo poco non restava nulla di lui, come se il suo volto fosse troppo molle per risultare anche durevole. In compenso, era buono e paziente.
Passarono degli anni, e la vita, pur senza piegarli, li sottomise a prove dure e inaspettate, che valsero a distrarli per un po' dal pensarsi a vicenda. Infine - era trascorso molto tempo dall'ultima volta - si incontrarono di nuovo. Stavolta l'inverno era ancora all'inizio: il mondo era tutto bianco, illuminato da quel cielo lattiginoso che è normale nei primi giorni di dicembre. I pini marittimi alzavano le loro cupole folte, ma non riuscivano comunque a bucare la nuvolaglia e a far evadere il sole, perfettamente nascosto e invisibile dietro quello strato gommoso e opprimente.
Il loro rendez-vous fu, come sempre, piacevole: conversarono a lungo, con serietà e ironia, e i loro sguardi dissero di nuovo che la loro attrazione mai consumata ardeva ancora, come una brace solo ricoperta, che è ancora in grado di scaldare la stanza tutt'intorno al camino. Ma quella volta la loro indeterminatezza e la loro incapacità di decidere non suonarono come il consueto rinvio di una faccenda grande e importante che, in ogni caso, sarebbe stata esaminata in seguito: quella volta compresero entrambi immediatamente, anche se nessuno dei due lo ammise a voce alta, né allora né in seguito, che i loro saluti erano definitivi.
Il ragazzo vide allora con chiarezza di essere giunto al termine della propria giovinezza: nel momento in cui l'abbracciò per l'ultima volta divenne un uomo. Ma non perché rinunciare a lei significasse rinunciare all'amore che aveva segnato buona parte della sua gioventù - lei non era mai stata nulla per lui, benché, in potenza, sarebbe potuta essere tutto -, bensì perché, per la prima volta, era il tempo a venir meno. Egli seppe di essere un uomo quando si sgretolò quella condizione che era sua da sempre, perché è quella propria dell'infanzia e della giovinezza, ossia la sensazione vaga ma sicura che il tempo sia infinito e che basti a tutto. A riunire le loro solitudini, invece, non sarebbe più bastato; e quella, gli balenò subito alla mente, era soltanto la prima di molte rinunce.
In seguito l'uomo raccontò per la prima e unica volta quella storia strana, priva di fatti e piena di aspettative mai precisate: lo fece d'estate, in montagna, una notte priva di altre luci a parte quella, abbagliante, della Via Lattea. Era sdraiato su un prato accanto a qualche amico, appena fuori dal recinto pallido e pietroso di un borgo murato. Al margine del prato iniziava il bosco, popolato da cinghiali e da altre bestie; in quella notte perfettamente silenziosa gli animali sentivano ogni bisbiglìo proveniente dal gruppo degli uomini, e gli uomini avvertivano ogni fruscìo del bosco. Gli uni e gli altri, allora, fremevano, preoccupati a vicenda di una minaccia che non sapevano identificare, perché era al di fuori dei propri confini e si perdeva nella notte.
Quando ebbe finito di raccontare, e senza che dal bosco giungessero ululati o scalpiccìi, l'uomo guardò la Via Lattea ed ebbe un brivido: e non capì mai se fosse per il numero infinito di stelle che lo inchiodava alla propria meschina essenza e al terrore, che aveva sempre provato, di quell'eternità, o piuttosto perché in cielo campeggiava lo stesso chiarore lantigginoso dell'ultima volta che aveva visto lei.

categorie:

29 aprile 2012

L'amore e altre bestie

Credo ci sia qualcosa di bestiale e istintivo nell'attaccamento che ciascuno di noi ha per la primavera. Se uno ci pensa, e vi prego di farlo, è insensato che uomini e donne civilizzati, pienamente inseriti in una cornice di rapporti sociali e sentimentali complessi, se ne escano poi a parlare di «risveglio dei sensi», come fossimo animali che attendono lo scioglimento delle nevi per dare il via alla stagione degli accoppiamenti; e non ha senso che, gente che vive magari in città celebri!, la colmi di vacua allegria una rinascita della natura che può interessare tutt'al più i contadini o i veterinari.Ecco, a mio parere in tutto ciò c'è molto di innato e ben poco di umano, se consideriamo che l'uomo si è di certo un po' evoluto dai tempi della sua comparsa nelle steppe africane; se non altro si è alzato in piedi, e da quell'altezza dovrebbe giudicare con più raziocinio le cose della terra, quelle che competono maggiormente alle bestie.
Ma non è di questo che voglio parlare.Io amo la primavera quand'è all'inizio, in quel momento in cui le ore di sole sono tiepide e gradevoli, e tuttavia la notte è ancora fredda, e trascina le sue ombre gelide fin dentro la mattinata. Mi pare uno scambio equo, in qualche modo; amo la primavera perché mi pare razionale. È in un giorno così, qualche tempo fa, che mi è accaduto un fatto del quale non mi sono più liberato.Quella mattina mi ero alzato molto presto, con il preciso intento di salire su uno di quei rari tram che già sferragliano sui vialoni di periferia mentre la città dorme ancora.
Di quella mattina ricordo soprattutto il freddo. Del freddo mi piace che fermi in una morsa i pensieri, i quali altrimenti si perdono e non lasciano niente, come un uccello che vola via da una stanza con le finestre aperte in cui è entrato per errore. Invece il freddo dona concentrazione, se non può garantire l'intelligenza; e so che in quel tragitto sul tram, nonostante il rumore delle rotaie percosse, pensai molto e feci riflessioni gravi e forse interessanti. Ma le ho dimenticate tutte.
Quando giunsi all'università - studio psicologia - gli ampi corridoi della facoltà erano vuoti; c'era solo qualche usciere assonnato quanto me. Non mi interessai a loro, come loro non si interessarono a me; mi parve già allora un baratto giustissimo. Mi diressi invece nell'aula vuota, mi sedetti ed attesi.Giorgia era l'unica ragione per cui mi ero svegliato quella mattina. Giorgia ha gli occhi chiari, i capelli lucenti come cristalli e una pelle chiara, di porcellana, tanto che a volte verrebbe naturale colpirla con le nocche per sentirne risuonare il vuoto; quando non capisce qualcosa, a lezione, mordicchia una matita e mette su un adorabile broncetto. Io ero lì per lei; e lei, per magia o più probabilmente per i poteri che io stesso le avevo conferito sulla mia anima, riempiva già da assente il posto che le serbavo accanto a me.Quella mattina, come ogni mattina, Giorgia arrivò tardi. Fu felice di vedermi: per il posto che le avevo tenuto, poiché era una lezione a cui lei teneva particolarmente, ma anche - io credo - perché ero io e perché avevo pensato a lei. Mi salutò e mi disse qualcosa, ma la conversazione si spense subito, ben prima che arrivasse il professore. Io a Giorgia non so dire nulla e non so chiedere nulla.
Alla fine della lezione, Giorgia mi sorrise e si avvicinò a me.«Senti» mi disse, e mentre parlava aveva il collo piegato di lato «ti va di venire con me con me in centro, oggi pomeriggio? Possiamo prendere un tè alla pasticceria vecchia, quella che sta di fronte al cinema. Dopo, se vuoi, andiamo a vederci un film; ma si può anche restare lì e prendere un altro tè, o non prendere niente».Non replicai nulla; era tutto lì. Ricambiai il suo sorriso, per educazione, ma anche quello mi parve superfluo.
Tornai a casa per pranzo e mangiai con la cieca applicazione di una macchina, per abitudine ma senza fame. Poi andai a letto: ero stanco per la levataccia e in più, la sera, volevo risultare bello e riposato per Giorgia. Ma non crediate che lo facessi per competere con la sua bellezza, per così dire, o perché volessi conquistarla: non ho mai voluto prenderla d'assalto, Giorgia, alle cui porte restavo accampato come un pellegrino ai piedi di un tempio. Mi bastava restare lì a contemplarla, godendo della sua ombra e della sua grazia; e tutto ciò che sognavo era che lei mi aprisse le porte. Ma io, io non avrei mai mosso contro di lei.Ad ogni modo non dormii, o dormii male. Feci sogni pesanti e aggrovigliati, in cui tornavano come a burlarsi di me tutti quei nomi e quelle facce che mi avevano messo in testa a lezione. Posso dire con certezza e senza animosità, dopo anni di studio, di odiare la psicologia. Avrei forse scelto Giurisprudenza, mi avessero lasciato scegliere da me; ma mia madre no, mia madre è appassionata di Freud, si diletta di psicoanalisi casalinghe, e compera libri in lingua originale anche se non sa il tedesco. Mi ha ripetuto talmente tante volte quelle che ai suoi occhi sono formule magiche che alla fine mi sono convinto che tutte quelle parole volessero dire chissà cosa, e che la loro evidente insensatezza fosse prova di chissà quale fascino. Ho compreso tardi che per lei la psicologia non è che un modo per interpretare i sogni delle amiche e per avere numeri sicuri da giocare al lotto; ai suoi occhi innamorati e deferenti io sono uno sciamano, non uno studioso. E la mia disciplina non è che bassa divinazione.Può darsi d'altronde, riflettendoci, che abbia ragione lei. Mi domando a volte se la cosa più razionale, e dunque più umana, non sia concludere che certe domande non vanno fatte, come a tavola non si parla - proprio perché si è tra persone civili - di certi argomenti. C'è un fondo di morbosità, o molto più di un fondo, nello scandagliare le profondità dell'anima: tale morbosità richiama alla mente l'andamento del cane del caccia, che torna a fiutare la stessa zolla di terra finché non trova una traccia sicura, e allora parte, sicuro di poter stanare la preda, quella preda che prova a fuggire nella terra, con il cuore che esplode di terrore; e io non sono sicuro di voler avere a che fare con certe vergogne e certe bestialità.Ma sto divagando.
Mi svegliai, dicevo, per nulla ristorato da quel sonno troppo affollato; allora andai al bagno a rinfrescarmi. L'acqua fredda mi fece bene, soprattutto perché il gelo mi ricordò la mattina, e la mattina mi ricordò Giorgia. Tornai in camera, per indossare i vestiti che avevo già scelto con attenzione: i pantaloni blu scuro, la polo color vinaccia, un maglioncino bianco e blu. Speravo che Giorgia avrebbe notato le mie mani lunghe, forse un po' pallide, e i bicipiti che guizzano come topi di campagna ogni volta che piego il braccio. Sorrisi a me stesso, e a lei.Ma non trovai nulla: scomparsi. Guardai nell'armadio, e non c'erano; non c'erano nemmeno tra i panni da lavare.Chiesi in malo modo spiegazioni a mio fratello, ma sospettavo già che non me ne avrebbe date; infatti era in salotto, intento a giocare stancamente alla Playstation, e mi guardava con la calma sgomenta degli ignari e degli innocenti.
Indossai le prime cose decenti che trovai nell'armadio, corsi alla fermata del tram e salii al volo su un mezzo in partenza.Quello sforzo aumentò, se possibile, il mio sdegno e la mia indignazione. Chi mi aveva giocato quello scherzo meritava ai miei occhi una pena brutale e selvaggia; una punizione di quelle che si infliggono ai traditori, perché quel sabotaggio era - nei miei confronti, e nei confronti di quel sentimento sacro - nient'altro che tradimento. Sapevo che anticamente i traditori venivano squartati, e approvai come giusta e morale quella risoluzione. Mi chiesi cosa sarebbe stato di me se all'università avessi scelto Storia, e mi risposi che sarebbe stata una scelta saggia e una carriera accademica di tutto rispetto. Sicché maledissi di nuovo la psicologia e i comportamenti indotti. In quello slancio d'odio, scordai perfino che senza la psicologia non avrei mai conosciuto Giorgia.
Arrivai infine alla pasticceria e salii a due a due, con furia e metodo, gli scalini di legno che conducevano alla romantica saletta da tè (a ogni passo scricchiolavano sotto di me, come ad annunciare il mio arrivo). Mi sentivo spinto da un istinto infallibile, e infatti la trovai là. Era seduta a un tavolo un po' discosto dagli altri in compagnia di...Quando mi vide, Giorgia sbiancò. Scoperta, colpevole, forse pentita, si alzò di scatto e si addossò al muro, in fondo alla stanza. Io urlavo; lei disse qualcosa, o forse lo rantolò, ma non le badai: continuai invece a vomitarle addosso il mio disprezzo, la chiamai puttana, le dissi che la sua pelle straordinariamente soffice e luminosa non copriva appieno la sua vera natura di bestia squamosa, di rettile, di viscido serpente dalla lingua biforcuta. E proseguii ancora a lungo, senza più badare alle parole che pronunciavo, fino a che persi la voce.Quella era la prima volta che parlavo a Giorgia, la prima volta che le dicevo davvero qualcosa. Può sembrare paradossale, a un occhio superficiale, ma se ci pensate non lo è affatto. Tutto ciò che chiedevo a Giorgia era nient'altro che poterla ammirare, in ginocchio davanti a lei, come ci si genuflette dinanzi a una cosa sacra. Ma lei, sedendosi a quel tavolo, aveva scelto l'uguaglianza; e io non potevo gestire quell'uguaglianza che non avevo richiesto.
Non ricordo come lasciai la pasticceria e come tornai a casa. Più tardi, quand'era già notte da un po' e io ero già a letto, mi venne il pensiero folle di rimanere ad aspettarmi in piedi, con il preciso intento di chiarire le questioni in sospeso, di farmi una ramanzina e con quello, inconfessato, di farmi pagare a forza di pugni i baci rubati. Ma non sentii nessuno rientrare e alla fine mi addormentai con l'idea che l'indomani avrei chiesto al professore di consigliarmi uno bravo da cui andare.

categorie:

26 gennaio 2012

Storia di un menomato

Vedete a che guasti può portare l'ossessione per il proprio aspetto esteriore...! Io, ad esempio, sono (o meglio, lo ero: adesso sono solo un vecchio), io sono, dicevo, un uomo nient'affatto brutto, con un bel naso franco e diritto, capelli folti e lisci, di un colore tra castano e rossiccio, e labbra gentili, forse un po' femminee, rese però meno equivoche da un mento piuttosto forte. Ma sono sempre stato miope, di una miopia sempre meno trascurabile man mano che passavo giorni e anni sui manuali di scuola e su altri accidenti dello studio e del lavoro. Solo che mi ero messo in testa che stessi male con gli occhiali; allora, in ogni occasione anche vagamente pubblica (anche se si trattava solo di un'uscita con gli amici, per dire), evitavo di presentarmi coi miei buffi occhiali d'osso - oh! detta così fa ridere: ma all'epoca, vi assicuro, erano occhiali normali... - e rinunciavo, di fatto, a gran parte delle mie facoltà visive.
Questa decisione, e io non potevo ignorarlo né lo ignoravo, aveva delle conseguenze: ricordo che più volte venni rimproverato da conoscenti che non avevo salutato, nonostante fossi passato loro accanto nella piazza del mio paese; certi parenti mi tolsero a loro volta il saluto, invece, perché al funerale di un prozio non li avevo degnati di un cenno; e poi smisi anche di andare allo stadio, perché senza occhiali non vedevo nulla e con gli occhiali avevo l'impressione che i giocatori in campo passassero il tempo a guardare me, seminascosto nei distinti ma reso inconfondibile dai miei occhiali d'osso. Tutto questo, in ogni caso, non è ancora niente.
Una sera un amico che mi ero fatto all'università - mi sedevo vicino a lui perché mi serviva qualcuno che mi spiegasse le scritte alla lavagna - mi invitò a una festa a casa di certe sue amiche, ragazze di buona famiglia di una cittadina vicina che i genitori bottegai mantenevano, per non fare brutte figure, in un appartamentino estremamente decente alla prima periferia della nostra città, più grande e munita di un ateneo antico e glorioso. I giovani, in ogni epoca, credono in assoluta buona fede di avere inventato il divertimento e la trasgressione; ma non è vero, non è mai stato vero (se non, forse, per la prole scapestrata di Noè). E in effetti anche noi, sebbene avessimo vestiti castigati e ballassimo canzoni melense, ci divertivamo; non invidio, ai giovani d'oggi, una libertà che è fin troppo vigilata...
Ma non divagherò oltre. Mi feci bello davanti allo specchio, pettinai all'indietro i miei capelli lisci e indossai una camicia chiara; una giacca nera rubata a mio padre e una cravatta stretta sottolineavano il mio fisico asciutto. Andai alla festa, ma sulle prime non mi divertii; mi disturbava l'ostentazione di ricchezza da parte di quelle figlie di parvenu e le loro acconciature copiate pari pari dai film americani. Poi la vidi: vidi i suoi capelli biondi, gli occhi che scintillavano di una luce verde e azzurra che non potevo aver inventato a causa delle mie imperfezioni, un viso magro, dai contorni freddi e rigorosi. Chiesi al mio amico, conoscendo il mio difetto, se era davvero così bella; lui confermò con entusiasmo, e io mi avvicinai a passi decisi e le chiesi di ballare.
Ma quando avevo già chiesto il suo braccio, quando già le avevo sorriso, mi ritrovai a una distanza da cui mi era agevole constatare il mio errore: i suoi occhi verdi-azzurri non li avevo inventati, certo, ma non avevo visto la loro acquosità bovina, né il loro piegarsi mestamente all'ingiù. Il viso, poi, non aveva nulla di ciò che credevo: quegli spigoli seducenti li aveva modellati il mio astigmatismo, giacché in realtà il suo era un ovale perfetto, ma molle, privo di imperfezioni tanto quanto mancava di carattere. Mi dissi immediatamente che la sua bellezza era del tipo di quelle che stancano presto; né la gobbetta sul suo naso, che non avevo ovviamente scorto e che adorai, bastava da sola a contrastare quell'impressione. Tuttavia, le avevo chiesto di ballare e ballai. Si dà il caso che io fossi un ballerino più che discreto; un caso sfortunato volle che anche lei sapesse muoversi benissimo.
Ballammo a lungo, finché lei, con una mossa che all'epoca poteva venir definita sfacciata, mi trasse da parte perché voleva parlare con me. Ci dicemmo molte cose; ma non le dissi del suo viso molle e del mio errore. Acconsentii a rivederci, di tanto in tanto. Ma non seppi mai dirle che era una donna di cui mi sarei stancato; in seguito scoprii che avrebbe ereditato una piccola fortuna, e lo scoprì anche la mia famiglia, il che complicò le cose e insieme le accelerò. Ci sposammo nel duomo della sua cittadina, un meraviglioso edificio barocco irrimediabilmente rovinato dagli stucchi settecenteschi; ci nacquero poi due figlie che assomigliano a lei, poi, più tardi, un maschio che non somiglia a nessuno e che ha solo le mie labbra da donna.
Ȅ stata una buona moglie e un'ottima compagna e non mi lamento di lei. Grazie a lei ho avuto una vita tranquilla e ovattata e una famiglia che tutti mi invidiano. Però, quando abbraccio i miei nipotini, mi chiedo sempre cosa sarebbe stato della mia vita, se quella volta la mia vanità non mi avesse tratto in inganno, e come sarebbe prendere in braccio i nipoti della donna che avrei incontrato e avrei amato. Allora li metto giù, con la scusa di andare a fumare sul balcone (protestano, con le loro vocine stridule, e dicono che il nonno non dovrebbe fumare: ma cosa vogliono da me, questi qua?), e penso a dove sarà ora quella donna, e ai suoi nipoti. Gli occhiali, da quando mi sono sposato, non li ho più tolti; e certe mattina che il sole filtra fra le tapparelle, e lei dorme ancora, apro gli occhi e osservo la luce sui suoi capelli, che sono passati da biondi a bianchi senza ingrigire, e la deliziosa gobbetta sul suo naso, e penso che chissà, forse non è vero che ho sbagliato o mi sono ingannato. Poi allungo la mano verso il comodino, inforco i miei occhiali di foggia antica, e sospiro.

categorie:

20 novembre 2011

Brevi biografie di persone sgradevoli

Sasà Mariani, nato nel 1964 a Cefalù, ha mangiato due caccole di fronte all'unica donna che l'abbia mai amato.

Ennio Morresi, di anni 43, è uso ballare in ascensore con una certa grazia. Fuori, è una persona orrenda.

Silvia Santangelo si aggrappa al braccio delle sue amiche per esprimere concetti stupidi, e non ricorda neanche più se lo faccia per idiozia o per calcolo.

Ahmed Cehu è venuto da Argirocastro per piazzarsi dietro ai camion che fanno manovra.

Edmondo Sinisi è nato a Bologna da genitori meridionali. È permaloso e ha le mani sudaticce.

Toni Busacca, di Como, è uso passeggiare sul lungolago e infilare i piedi nell'acqua. Un paio di volte è caduto e ha perso degli oggetti.

Nerio Sozzi tira giù l'acqua prima di aver finito di pisciare. Ogni volta.

Marina Catellani ha 26 anni e ridacchia quando sente una parola nuova, con l'aria di chi la sa lunga. Poi torna a casa e si dimentica di guardare sul dizionario.

Sandro Morviducci di Corridonia va in giro con le scarpe slacciate e guarda brutto se glielo fanno notare.

Pina Mezzanotti, di Calangianus, emette un breve grugnito di soddisfazione dopo ogni battuta di spirito.

Maicol Capobianco esclama "Ecciucciamelo" ogni volta che starnutisce, poi si guarda intorno con aria compiaciuta e col moccio colante.

Ivo Colizzi è nato nel 1942 a Premilcuore. È solito armeggiare con l'impianto elettrico finché non fa saltare tutto e si rimane al buio, d'inverno, con i familiari che lo odiano.

Sara Vursi è di Crotone. Quando una sua amica ha una simpatia per qualcuno lei ci si immischia sempre e rovina ogni cosa.

Vincenzo Caputo è nato a Battipaglia. Suole toccare attrezzi elettrici con le mani bagnate. Finora gli è andata bene.

Categorie:

11 ottobre 2011

Il cuore della ragazza

Il Sor Morresi era un uomo fortunato e soddisfatto di sé, e non faceva nulla per nasconderlo: lo si vedeva da come saettavano intorno e intorno i suoi occhi piccoli, quelle volte che andava in paese, come se volessero segnare uno per uno tutti i compaesani con quel loro sguardo celeste, beffardo, e far pesare a ognuno la sua superiorità. Il Sor Morresi era ormai un uomo di mezza età, ma ancora forte, sicuro e tranquillo: quando attraversava l'arco all'ingresso del paese sporgeva sempre un po' la testa verso l'interno, per vedere chi fosse già là, e ricordava un po' la mossa del montone quando esamina gli intrusi sul suo pascolo, le zampe arretrate e il capo pronto a caricare.
Era nato contadino libero, ma con poca terra e tanti pensieri; in qualche decennio di amministrazione dell'eredità paterna era diventato un proprietario. Non un grande proprietario, ma in paese di grandi non ce n'erano e se ne trovavano pochi anche di medi. Il Sor Morresi, perciò, era di gran lunga il maggiore. Per meglio mostrare la sua condizione era andato a vivere su un poggio al limite estremo delle terre comunali e dei suoi possedimenti, sicché per recarsi da lui i paesani dovevano attraversare tutta la sua proprietà. La grande dimora di mattoni sulla collina era stata una volta la casetta di un mezzadro, una costruzione umile con una stalla troppo bassa e una colombaia. Morresi aveva cambiato e demolito tutto, ma la torre colombaia l'aveva tenuta e fatta allargare, e ne aveva fatto una stanza bianca e ampia. Da lassù si vedeva oltre la macchia che sorgeva dietro la casa; si scorgeva il campanile dell'altro paese e più in fondo il mare.
Nella colombaia, che anche se non era più una colombaia si chiamava sempre così, dormiva l'unica figlia di Morresi. Anche coi figli l'uomo era stato prudente e fortunato: erano nati subito tre figli maschi, sani e utili, poi la femmina. Allora si era fermato: c'era già tutto quello che serviva. Quella figlia, però, era il suo solo dispiacere, soprattutto perché era bella. Si erano accorti presto, già dai giochi e dalle corse della bambina e poi dai suoi primi lavori (perché stavano bene, sì, ma non erano ricchi; non abbastanza da non far lavorare una donna) che la ragazza aveva un cuore debole che si stancava facilmente. In quei casi doveva fermarsi e sedersi sotto il grande olmo, per riprendersi un po'. Poi tornava alla colombaia e se ne stava a letto per dei giorni, finché di nuovo non si sentiva di uscire e di accompagnare la madre alla messa. Si era fatta comprare dei libri dai fratelli che andavano in città con il carretto, a commerciare, e in poco tempo, ancora ragazzina, aveva imparato a leggere. Adesso ne aveva un bel mucchio, stesi in un baule che sarebbe dovuto servire per il corredo.
Una donna con il cuore stanco non la vuole nessuno; ma se è bella e porta una buona dote le cose cambiano, perché ci si può accontentare di quei pregi, almeno per un po'. Se poi quel cuore non dovesse reggere a lungo, ci sarà ancora tempo per una seconda sposa e una seconda dote. Per questo motivo molti spiavano la ragazza quando andava in paese - aveva la pelle chiara perché vedeva poco sole, e due grandi occhi verdi fatti enormi dalle guance pallide - e molti andavano alla casa sul poggio, sperando di trovarla sana e allegra sotto l'olmo; certi invece chiedevano di lei se non c'era e volevano salire alla colombaia ad augurarle una pronta guarigione, ma alla colombaia non si poteva salire, a salutare Cecilia.
Un giorno il Sor Morresi salì dalla figlia e la trovò che leggeva un libro verde (gliene aveva portati alcuni il fratello Saverio, che era tornato quella mattina da un viaggio di tre giorni, e poi le aveva accarezzato i capelli castani, del colore delle nocciole); la guardò e le disse che doveva parlarle.
- Cecilia, cominciò, ti piace leggere?
- Babbo, perché me lo chiedete? Lo sapete che mi piace, sì. E poi non posso fare molto altro, quando sono in queste condizioni, aggiunse; e sorrise di un sorriso un po' colpevole.
- Hai pensato mai che potresti farti monaca, qui in città? Lavoro pesante non ne avresti, potresti leggere quanto vuoi, e poi io e tua madre ti verremmo a trovare di tanto in tanto. I tuoi fratelli, non ne parliamo neanche: loro sono sempre là.
Cecilia lo guardò, con quegli occhi verdi che mettevano paura, da tanto erano seri.
- Babbo, mi volete mandare via da questa casa?
- No, figlia mia, non lo dire, anzi: non lo pensare proprio, rispose confuso e vergognoso il Sor Morresi, e gli veniva da chiedere scusa. A lui!
- E allora, babbo, se non mi mandate via io resto. Sono stata qui vent'anni, non sarà un gran danno se resto ancora qualche annetto (perché non saranno tanti, babbo).
Allora il Sor Morresi se ne andò. Tornò qualche ora più tardi, dopo un giro nei campi, e disse a Cecilia che cominciasse a preparare il corredo, perché se non voleva andare monaca prima o poi sarebbe partita sposa. La donna annuì. E a tutti quei libri, disse il padre, si sarebbe trovato un posto più decente.
Cecilia iniziò a filare, aiutata dalla madre, e quando aveva fiato lavorava per delle ore; era curiosa di sapere cosa sarebbe stato di lei, una volta finito quel corredo. Intanto chiamarono un falegname, ché preparasse un mobile per quei libri. C'era un vecchio che aveva più o meno l'età di Morresi ma che pareva vent'anni più anziano; viveva dentro le mura, in un bugigattolo sotto il campanile in cui teneva anche gli attrezzi, ed era il falegname del paese. Gli dissero che c'era lavoro nella villa sul poggio e quello andò a vedere; ma siccome era una cosa facile la lasciò a suo figlio Luca, un ragazzo tarchiato e biondo che qualcosa doveva ancora imparare. Il lavoro era semplice ma andava fatto bene; perciò fecero salire Luca alla colombaia e gli mostrarono la parete. Poi Cecilia gli mostrò com'era fatto un libro, perché lui non ne aveva mai visti; rimasero intesi che l'avrebbe portato a casa, per avere un modello e prendere le misure.
Quando Luca tornò, Cecilia era a letto e non lo fecero salire in colombaia; ma li fecero parlare attraverso la porta chiusa, e lei gli disse di che colore voleva il mobile, quanti libri dovevano stare su ogni lato e il bisogno che c'era di pensare a degli spazi più ampi per certi libri giganteschi che avevano trovato i fratelli di lei, e se poi c'era anche la possibilità di mettere uno specchio al centro del mobile, perché Cecilia voleva potersi vedere anche quando il cuore la bloccava sul letto.
Luca tornò altre volte, e ogni volta portava con sé un pezzo di mobile e un libro che gli era servito da modello (aveva cominciato a sfogliarli e a guardare le figure). Ogni volta, che Cecilia fosse a letto o al telaio, c'erano degli uomini che chiedevano di lei. Qualcuno, credette Luca, qualcuno era talmente ben vestito e distinto che doveva venire dalla città. Poi Luca terminò il mobile e smise di recarsi al poggio; l'ultima cosa che dovette fare fu sistemare i libri, alla presenza del Sor Morresi che lo scrutava attento ed irritato per quella spesa frivola, seguendo le disposizioni della ragazza.
Un giorno di marzo il baule fu pieno di panni di lino e di cotone, e il Sor Morresi salì ancora alla colombaia. Sua figlia era sul letto e respirava male, e i suoi occhi erano sempre più grandi (ma a Morresi parve, di certo senza motivo, che fossero anche più verdi). L'uomo parlò comunque, perché la figlia lo fissava con curiosità.
- Hai scelto qualcuno, Cecilia?
- Sì. Voglio sposare Luca.
- Luca?, ripeté Morresi, e non capiva. Non c'era nessun Luca tra gli uomini che gli si erano presentati.
- Il figlio del falegname, babbo.
- Cecilia mia, che dici? Non si può e neanche ci si può scherzar sopra: io dovrei dare la tua dote a quel poveraccio? E quanto riuscirà a mantenerti?
- Quanto dovrà mantenermi, babbo? Un anno? Due anni? Vedrai che gli basterà la mia dote. E poi un poveraccio che sa un mestiere non per forza resta povero. Guardatevi nello specchio, là: l'ha fatto lui.
- Io non posso farti uscire così dalla mia casa.
- Prima volevate cacciarmi, babbo, e ora mi tratterrete per forza? Va bene, ne avete il diritto; ma se mi trattenete ora, io uscirò solo da morta.
Il Sor Morresi uscì e camminò per i campi, dove c'erano dei lavori da terminare prima della bella stagione; controllò che tutto filasse per il meglio, poi risalì al poggio e alla casa e fece gli scalini che lo separavano dalla figlia:
- Non ha neanche fatto la proposta, Cecilia.
- Mandatelo a chiamare, babbo: ditegli che ho da dolermi di una cosa.
Quando si sposarono, Cecilia partì dal suo olmo con il carretto dei fratelli. Qualcuno dei vecchi invitati pianse, quando entrò in chiesa con il suo velo inondato dalla luce e con quegli occhi verdi poco più piccoli del sole; piansero perché sapevano che non avrebbero mai più rivisto nulla di così bello.
La dote servì a pagare l'affitto di una casa dignitosa e di una piccola bottega nel paese vicino, quello che si vedeva dal poggio: Luca impiegò poco a diventare un bravo falegname, uno che si chiama quando serve un lavoro preciso.
Cecilia durò cinque anni: allattò due maschi e non sopravvisse alla femmina. Allora Luca decise che la bambina si sarebbe chiamata Cecilia: quando il prete protestò qualcosa, lui gli indicò dei passi nei Vangeli, che non parlavano di nomi ma di amore e di pietà. Per un caso che non smise mai di commuovere suo padre, la piccola Cecilia ebbe anche gli occhi della madre.

categorie:

15 settembre 2011

Una storia edificante

Arik-balit, prediletto del dio Assur, signore di mille città, davanti cui si prostrano i coltivatori d'orzo della pianura meridionale, i popoli dei monti che allevano gli onagri e le tribù del nord che estraggono pece dalla terra, si affacciò un giorno da una finestra del suo palazzo, rosso di mattoni e azzurro di smalti preziosi, e vide una donna.
La donna che passava in strada aveva la pelle scurita dal sole, come una plebea, e il naso diritto e sottile della gente dell'Anatolia; doveva essere una strega, perché sentì lo sguardo del re e lo ricambiò. Quando vide quel volto, Arik-balit si sentì punto, e mandò a chiamare il capo delle sue guardie.
"Chi è", gli chiese, "quella donna del Nord che passava poco fa in strada? Non l'ho mai veduta nel mio regno, né ho sentito parlare prima dei suoi occhi viola".
"Ella, mio signore, è la moglie di Seru l'hurrita, che serve da prode nel vostro esercito e ha mostrato la sua fedeltà con molte ferite".
"Non mi aspetto nulla di meno da un mio soldato; ma se è tale la sua bravura, desidero e comando che gli si dia occasione di mostrarla al meglio. La primavera che viene, quando l'esercito si muoverà contro i Caldei, gli venga affidato il comando della prima linea, così che mostri col suo coraggio e il suo sacrificio la via ai miei soldati".
E veramente, quando gli Assiri si trovarono di fronte le schiere dei Caldei, che adorano pietre informi cadute dal cielo chissà quando e richiamano alla vita i morti con parole incomprensibili, Seru l'hurrita avanzò per primo verso il bronzo luccicante dei nemici; ma egli era un bravo capo ed era gradito ad Assur, perciò i suoi soldati morirono per lui e la sua gloria rifulse sul campo. Quando la notizia della vittoria giunse al palazzo, ed essa fu attribuita alla spada di Seru, il re volle celebrare il trionfo e lo chiamò a corte, assieme alla sua consorte. Quando Seru gli si inchinò davanti, Arik-balit in persona lo rialzò; e gli donò una lama dorata e una nuova missione: doveva prendere una fortezza che da tempo resisteva agli Assiri e chiudeva loro la strada per il mare occidentale. Erano gli stessi hurriti ad averla costruita e a presidiarla, ma il re parve non preoccuparsi di questo; mentre annunciava a Seru la sua destinazione, guardava la moglie di lui e i suoi portentosi occhi viola.
"Quella fortezza", disse più tardi il re al capo delle guardie, "ha resistito a mio padre e a mio nonno, e Seru non la prenderà; forse preferirà tradirmi e tornare ai suoi hurriti, e allora io prenderò sua moglie in schiava a parziale risarcimento della sua malafede. Se invece tornerà sconfitto, gli taglierò le palpebre e lo farò impalare per non aver adempiuto ai miei ordini, e sua moglie sarà comunque mia. Dovesse morire in battaglia, sarà un eroe e lei sarà una vedova".
Ma quando l'estate stava per terminare, e con essa la stagione della guerra, le mura della fortezza caddero davanti agli Assiri; Seru l'hurrita sapeva come combattevano e cosa pensavano gli uomini della guarnigione, che avevano il suo stesso sangue, e riuscì dove tutti gli altri avevano fallito.
Quando tornò di nuovo da Arik-balit con la propria moglie, Seru ebbe una corona di foglie d'oro e una nuova gloria: sarebbe diventato capo delle guardie di palazzo, e la sua incommensurabile spada avrebbe difeso la persona del re. "Vedi", aveva detto il signore al vecchio capo delle guardie, prima di congedarlo, "devo impedirgli di cogliere altre vittorie; lasciamo che la sua fama invecchi e svanisca, e poi potrò eliminarlo".
Ma Seru l'hurrita non si sentì defraudato di nulla e non protestò per esser stato allontanato dall'esercito; svolse invece il suo nuovo incarico con entusiasmo, e condivise sempre l'umile pasto dei suoi uomini, come aveva fatto da soldato e da generale. Quando il re chiamò le sue guardie, perciò, e comandò loro di assassinare l'hurrita, queste non obbedirono, giacché non credettero che la decisione fosse giusta; e fu forse la prima volta che uno scrupolo morale si affacciò alle menti degli uomini, in quelle terre e in quel tempo. Cosicché Arik-balit fu preso e condannato, per aver tradito Assur e per aver governato con falsità e malanimo; gli tagliarono la pelle e le palpebre, e i suoi occhi neri furono bruciati dal sole.
Arik-balit era ancora sul suo palo, gemente, quando Seru si accinse a dormire nel palazzo la sua prima notte da re. Sdraiato su tessuti preziosi, disse alla propria moglie: "Avresti mai creduto, mio tesoro, che la mia spada mi avrebbe condotto fin qui? Che un soldato si sarebbe fatto re, per Assur e per il suo braccio?".
La moglie gli sorrise e rispose: "Ma è per me, amore mio, è per me che sei qui; è per me che il tuo braccio è stato scelto e favorito e ha conquistato le fortezze nemiche e questa città". Allora Seru le diede ragione, senza parole, e la baciò sulle ciglia folte e sul naso diritto, e poi sulle palpebre morbide che coprivano i suoi incommensurabili occhi viola.

categorie:

02 settembre 2011

Verso la città di C.

Nessuno mi ha mai spiegato dove sia fissato il punto della propria esistenza oltre il quale si smette di essere una ragazza e si diventa una donna. Immaginando, con una metafora piuttosto abusata, che la vita umana sia una strada, quel momento di passaggio dev'essere un vecchio cippo in pietra con una breve epigrafe poco leggibile, oppure un grande cartello appena ridipinto che annuncia che si sta lasciando il territorio della giovinezza in favore di quello della maturità. Personalmente, ho deciso di esser diventata donna nel momento in cui la mia routine quotidiana si è modellata su quella del mio lavoro, e come questo è diventata piatta e priva di sorprese. Ho un buon lavoro e una buona vita, di cui certo non mi lamento, ma che hanno smesso di sorprendermi. O forse doveva necessariamente andare così, e non c'è altro modo valido per diventare grandi.
Solo qualche tempo fa mi è capitato, in via del tutto eccezionale, di incontrare un breve tratto sconnesso sul perfetto selciato della mia vita. Dovevo recarmi in un'altra città per lavoro, a visitare una fiera e ad incontrare certi clienti che il mio capo considerava irrinunciabili: in ufficio mi consegnarono un biglietto del treno e la prenotazione di un albergo di lusso, e mi ripeterono che facevano molto affidamento su di me. Io, da parte mia, ero soddisfatta sia della stima che mi veniva espressa sia della breve e inattesa vacanza.
Quando giunsi in stazione albeggiava a stento. Forse per questo, o per la particolare architettura liberty dell'edificio (simile peraltro a quella di tante altre stazioni), ebbi quasi l'impressione di addentrarmi in un'altra dimensione e in un altro tempo, lasciando il dominio della plastica e del frastuono onnipresente per quello del ferro bruno e dell'ipnotico brontolare dei binari. Salita sul treno, constatai che non c'erano molti altri viaggiatori nel mio vagone e ipotizzai che fosse per l'ora o per il costo del biglietto di prima classe. Di fronte a me c'era soltanto un signore grassoccio, sulla sessantina, dall'espressione del viso piuttosto corrucciata e con il naso rosso e irritato, come un bambino che non abbia perduto il vizio di infilarci le dita e che si sia per di più buscato un raffreddore. I capelli erano grigi, tagliati corti, quasi a spazzola: anche questo contribuiva all'illusione infantile. Sotto a questo viso ben poco autorevole stava invece un bell'abito sartoriale, grigio fumo. Si trattava quasi certamente di un industriale che andava in prima persona a curare i propri affari.
Avevo fatto colazione prima di uscire di casa, e quando il treno si mosse non potei riprendere sonno. Mi trovai perciò col volto attaccato al finestrino, intenta a fissare il paesaggio che si schiariva e perdeva gli ultimi contorni irreali della notte. Passammo una, due stazioni, e nessuno venne a sedersi vicino a me e al sessantenne col naso rosso. I raggi del sole, ormai piuttosto caldi, battevano sul finestrino e sul mio viso, ed io cominciavo infine a scivolare nell'incoscienza, cullata dal ritmo del convoglio e dal silenzio del vagone. Proprio allora mi accorsi che il treno si stava avvicinando alla città in cui viveva un ragazzo con cui anni prima avevo avuto una relazione. Lo definisco un ragazzo, benché avesse e abbia la mia età, perché quando ci frequentavamo eravamo entrambi tali. Mi capitava a volte di ripensare a quel ragazzo; ma forse, in realtà, guardavo con rimpianto a un'età serena e lontana. Appoggiata al finestrino, e già nel dormiveglia, riconobbi le colline e i boschetti che tante volte avevo visto con lui o che mi avevano annunciato l'arrivo nella sua città: riconobbi i suoi luoghi, ed ebbi voglia di lui.
Il signore grassoccio si alzò per prendere qualcosa dalla valigia; in quel momento, mi riscossi dal sonno e decisi che sarei scesa alla stazione successiva, quella del mio ex. D'altronde, solo il giorno successivo avrei dovuto incontrare i clienti; se anche avessi saltato la fiera, nessuno l'avrebbe mai saputo e a nessuno sarebbe mai importato. Oppure, potevo benissimo inventarmi qualcosa: ci sarà un motivo se il mio capo mi ripete in continuazione che sono una donna intelligente. Anche se quando lo dice mi guarda il seno.
Alla stazione di C. presi un taxi e mi feci portare a casa sua, senza sapere se lui ci abitasse ancora e con chi. Suonai il campanello: venne ad aprire lui, e portava pantaloncini blu scuri e una maglietta rossa. Aveva i piedi scalzi. Quando mi vide, non disse nulla; si limitò a passare una mano sui miei capelli, tenero e lascivo. Poi mi cinse sul fianco e mi tirò dentro, chiudendo la porta alle mie spalle.
Non ricordo cosa gli dissi, ma ricordo che avevo una gran voglia di parlare, di rivelargli cose, probabilmente anche di giustificare quell'improvvisa apparizione; lui invece non parlò, non sorrise, non atteggiò il proprio viso a nessuna espressione particolare: mi osservò, dapprima, poi cominciò a accarezzarmi. Ebbi quasi l'impressione che la sua bocca fosse cucita, e che non potesse staccare un labbro dall'altro. Non ricordavo tuttavia la gentilezza e la sensualità del suo tocco, e smisi di parlare. Poi volevo di nuovo dire qualcosa, ma non sapevo più cosa e a lui sembrava non interessare nulla al mondo. I suoi occhi e le sue mani vivevano solo in funzione del mio corpo: con una calma quasi irritante e una lentezza che non mi pareva possibile, iniziò a togliermi di dosso il serissimo tailleur che indossavo. Io a quel punto volevo saltarne fuori, calpestarlo, volevo essere nuda alla svelta; ma lui frenava i miei movimenti con gesti morbidi ma fermissimi. Ero una bambola di porcellana nelle sue mani, e lui non aveva intenzione di guastarmi il vestitino.
La situazione era assurda e in qualche modo destabilizzante; le sue mani, tuttavia, le sue mani grandi avevano raggiunto la mia pelle, e non avevo intenzione di scacciarle. Mi pareva quasi che le sue vaste mani si fossero ulteriormente allargate, mentre il viso di lui aveva perso ogni espressione, e non c'erano tracce della sua voce né della sua volontà. Ma tutto questo, mentre mi portava verso il letto che ben conoscevo, mi stava bene. La sua bocca, in fin dei conti, si aprì, ma lo fece solo per mordermi e leccarmi; volli prendere l'iniziativa, ma le sue braccia sembravano d'acciaio, e con gesti dolci mi inchiodarono a ricevere. Mi tolse le mutandine, poi parve dimenticarsi del mio sesso e si concentrò sul collo, sui capelli, sui seni; infine, quando scese, le sue labbra erano così dolci e leggere che pensai di raggiungere l'estasi. Le sue mani enormi correvano perdute sul mio corpo, mentre il suo viso copriva la mia vagina; ma alla fine quelle vagabonde trovavano sempre un luogo da carezzare, da stringere, da sfiorare, mentre più sotto il mio sesso fremeva ai suoi baci. Mi divincolai per un momento, e riuscii a spogliarlo e quasi a gettarmi su di lui, inghiottendolo in un boccone; lui tenne per qualche istante una mano sulla mia nuca, con aria di compiaciuta sufficienza, poi di nuovo mi prese e mi rovesciò con una forza che non gli conoscevo. Afferrandomi per le caviglie, salì fin sulla mia schiena, e simulò - una, due, tre volte; e ancora - di entrare in me da dietro, ma ogni volta il suo sesso non faceva che solleticare il mio, provocandomi un piacere che non poteva bastarmi. Io muggii di frustrazione e di voglia, e tentai con il braccio di acciuffarlo e di costringerlo a compiere il proprio dovere: vedendo e comprendendo le mie intenzioni, lui si diresse finalmente alla porta che gli offrivo. Quando avvertii che si introduceva in me, non potei fare a meno di emettere un gemito strozzato.
Fu allora che il signore distinto dal naso rosso smise di trafficare con la propria valigia e si girò verso di me. Il mio sogno, perché di un sogno si era trattato, era dunque durato solo pochi secondi, e quel mugolio ne era stata l'unica manifestazione evidente. Il tizio si sedette e mi guardò per un momento, poi si distrasse di nuovo. Io, però, non potevo più dormire per la vergogna (del tutto fuori luogo, giacché era evidente che nessuno aveva riconosciuto l'origine di quel verso) e per l'eccitazione. Così, dopo qualche minuto, mi recai alla toilette; ma la mia mente non riuscì a ricreare neanche una delle immagini del sogno, e i miei occhi non videro altro che le pareti bianche e scrostate del gabinetto. Uscii senza aver concluso nulla e tornai al mio posto. L'industriale dormiva.
Pochi minuti dopo, il treno traversava a tutta velocità la stazione a cui avevo sognato di scendere: le nuove linee veloci non servivano più la città di C. Appiccicai ancora il volto al finestrino e osservai le case e le strade che svanivano rapidamente; mentre tutto spariva, le mie labbra appoggiate al vetro si aprirono leggermente, per il desiderio e il rimpianto.

categorie:

visite dal 24 ottobre 2006