27 aprile 2011

L'ombra

Io camminavo per strada, pensando ai fatti miei, quando l'ho vista sulla mia destra: era all'interno di un giardinetto, ma al mio passaggio ha subito scavalcato la rete e ha preso a seguirmi. Da allora non mi ha più mollato: ovunque io vada, lei viene con me. Resta a un paio di metri di distanza, credo mi fissi - anche se non saprei dire con certezza se possiede degli occhi; in ogni caso mi sento osservato e sono un po' a disagio.
Si tratta di una sagoma nera, più bassa di me, con bordi sfuggenti e indefiniti, come se si muovesse sempre nell'oscurità. Quanto al carattere, più che un'indole propria ha una missione: è un presagio di morte e sventura, e da qualche tempo mi segue dappertutto.
Io picchietto sull'asfalto bagnato, con le mie scarpe da tennis, e lei sempre lì: è tardi, e la mia cittadina dorme il sonno tranquillo dei paesi, ma lei ci tiene ad accompagnarmi a letto e zampetta dietro di me, senza sollevare schizzi. Non ho voglia di guardarla e non la sento, ma so che c'è. C'è sempre. Quando vado a letto, quando mi sdraio sul mio materasso a due piazze, lei si piazza nell'angolo opposto e resta lì. Non dormo benissimo, in questi giorni. Ho paura anche quando attraverso la strada, perché ogni volta ho l'impressione che lei potrebbe spingermi o farmi cadere: e allora mi giro, esito, mi volto di nuovo, e magari quando mi decido è la volta buona che sopraggiunge davvero un'auto; ma non è scritto che debba morire così, e lei non è qui per quello. Il presagio che mi ripete ogni momento non ha niente di specifico, è un vago promemoria, e quando sono sereno e quando c'è il sole mi sussurra che tutto questo avrà termine, che ogni cosa finirà per sbriciolarsi e perdersi, e che di tutto quello che mi rende felice non rimarrà neanche il ricordo (né potrebbe: se muoio io, e la macchia nera mi assicura che morirò, non si vede chi altri dovrebbe ricordare).
Sabato sono stato a giocare a calcetto con gli amici, ma ho giocato molto peggio del solito. In particolare, ogni volta che provavo a lanciarmi sulla fascia come faccio sempre mi veniva in mente quella presenza alle mie spalle, e cadevo sul pallone o urtavo il mio avversario invece di saltarlo. Mi sono fatto la doccia, dopo, e almeno lì lei mi ha atteso fuori.
L'unico momento in cui quella presenza non mi angoscia è quando sono con la mia bionda, perché adesso c'è una che mi piace, ed è una ragazza bionda con un bel naso diritto e gli occhi chiari chiari. La vedo poco, per vari motivi, ma quando sono con lei è come se l'ombra non esistesse, anche se c'è sempre e mi cammina dietro. Mi rendo conto che è banale, questa cosa della bionda che dissolve le ombre, però a me succede così: allora l'abbraccio stretta, le afferro una ciocca di capelli e me li metto sugli occhi; poi mi giro e guardo attraverso quella visiera, e la sagoma nera mi sembra tanto minuscola e indifesa da farmi quasi tenerezza.
Quando dormiamo insieme, io e la bionda, l'ombra resta lì per un po', senza vergognarsi della nostra nudità; poi, più tardi, io allungo una mano a cercare la sua, così piccola tra le mie dita, ed è un gesto tanto naturale e definitivo che anche quella macchia nera, coi suoi bordi vaghi e acuminati, si sente di troppo e se ne va. Uscendo, chiude la porta senza far rumore.

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07 aprile 2011

Rudimenti di antropologia culturale

Gli antropologi, strambi personaggi che passano tutto il tempo a girare zaino in spalla in mezzo alle sterpaglie e alle manifestazioni del disordine creativo dell'umanità, a volte anche fuori della propria stanza, hanno recentemente scoperto nel fondo verdissimo della nuova Guinea, in una penisola che finora si riteneva abitata solo da scimmie dai grandi occhi, una tribù di aborigeni che non credono all'esistenza di Giulianova (TE). Hai un bell'andare lì, nella penisola calcarea posta al margine superiore della Papuasia, non lontano dal confine indonesiano, a dire a un paio di loro: guarda che Giulianova esiste, e non solo esiste, ma alla fine, pur con tutti i suoi problemi, che di certo ha (e chi non?), alla fine della fiera è anche un bel posticino; ma loro no, dissentono, uniscono gli anulari delle due mani (che in Papuasia è un modo un po' sempliciotto per dire no; come volessero intendere, "Ma chi vuoi che ci creda?"), ridacchiano e si allontanano con l'arco in spalla. Perché va bene l'uomo bianco, vanno bene gli aerei e i treni, va benone la macchina da cucire e la televisione, va bene persino il Dio freddo e invisibile che hanno portato certi frati belgi; ma Giulianova no, Giulianova è troppo, nell'ordine mentale di quei selvaggi non c'è posto per Giulianova (TE).
A questo punto, gli antropologi, che sono gente stramba, con i calzettoni corti e la barba bionda, si dividono e iniziano a litigare: certi dicono che bisogna rispettare le culture altre, che il mondo è policulturale, l'umanità multiforme, la gente differisce, e per fortuna, e non c'è niente di male se uno vuol credere a una cosa che poi, a ben vedere, non fa male a quasi nessuno; dispiace solo un po' ai giuliesi, almeno a quelli che si interessano di antropologia, il fatto che si trovi adesso su questo stesso mondo che ospita la cittadina abruzzese una cultura che invece non ha fede nell'esistenza della città, e anzi basa la propria unicità proprio su questo rifiuto. Gli antropologi di questa prima fazione, perciò, quando si recano nella capanna lunga e stretta del capovillaggio, con il tetto spioventissimo per via del clima subequatoriale, spesso si mettono a descrivere con dovizia di particolari - dico per dire - le bellezze di Tortoreto, al che il grande capo ascolta con attenzione, ma durano grande attenzione a non spingersi mai a Sud; altri, addirittura, hanno fatto stampare certe cartine dell'Abruzzo in cui i comuni di Roseto e Tortoreto, contro quanto stabiliscono l'esperienza e il diritto municipale, appaiono ingranditi e giungono a toccarsi.
C'è però un altro gruppo di antropologi che rifiutano l'eccesso di relativismo, quando serve ad ingannare i popoli, e giudicano che la menzogna non sia mai un mezzo accettabile nel dialogo interumano. C'è ad esempio un antropologo svizzero che ha la nonna a Giulianova, e questa prepara certi piatti di pesce che davvero uno non ci crede, specialmente se sei abituato ai ristoranti di Lucerna, ma questo è un altro paio di maniche: la questione vera è un'altra, e lo svizzero l'ha anche detto a un convegno, la questione è che se quegli aborigeni sono nostri fratelli, e non c'è motivo di sostenere che non sia così, allora perché a loro dev'essere precluso quel pesce, perché non possono presentarsi un giorno - poniamo di domenica, ché c'é più tempo per preparare - alla tavola dell'anziana signora Di Fabio, che fa un pesce che lèvati? Allora l'antropologo svizzero va dal capovillaggio, lo stesso di prima, e gli descrive non solo la casina bassa con le finestre verdi della nonna, ma tutto il quartiere di villette linde, e poi gli dice anche di quella volta da ragazzo che è stato a vedere la partita allo stadio Fadini, e c'era tutta Giulianova, allo stadio, perché quel giorno si giocavano una promozione in C1, lo capisce che significa questo per un giuliese?
Ma quei selvaggi non credono neanche alla C1.

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