30 aprile 2008

Vita di un piccione morto

Oggi ho visto un piccione morto. Era presso il gradino dell'ingresso di una casa, al bordo di una strada; e sollevava verso il gradino un'ala, come ad afferrarlo, come volesse issarsi su di esso con una mano che non possedeva.
Ho superato il corpo, poi sono tornato indietro per rivederlo. Mi sono piazzato ad una certa distanza e l'ho osservato per qualche secondo. Un solo occhio era visibile, perché il volatile giaceva su un fianco, ed era chiuso. Nonostante l'ala alzata, il piccione mostrava nella morte una calma imperturbabile che faceva pensare ad una sorta di composta maestà.
I piccioni sono animali strani e sembrano molto più intelligenti da morti.
Poi me ne sono andato; mentre mi allontanavo, ho sentito che si avvicinava una macchina, e mi sono girato a controllare istintivamente che le ruote non passassero sopra il piccolo cadavere. Ho visto con sollievo che l'hanno evitato; e mi sono sorpreso a desiderare la salvezza per un piccione morto. Non il ritorno in vita o altre assurdità del genere; non mi sono commosso per la sua sorte e non l'ho ritenuta ingiusta. Ho solo desiderato che le auto non lo schiacciassero e non lo disfacesse il tempo, e che il corpicino con l'aluccia alzata rimanesse lì, a manifestare l'ultimo impulso di vita o l'ultimo comando del cervello, o forse il sogno dell'uccello di essere di nuovo in volo e di aver sfuggito la morte.

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28 aprile 2008

Racconti vaghi e assolutamente privi di pathos-vol. I

Nella nostra piccola ma rispettabile cittadina, sita dove il fiume fa quel giro largo, ma comunque molto prima del mare, successe una volta (io ero presente e posso esserne fedele testimone) un fatto piuttosto grave, che fece delle vittime e terrorizzò e paralizzò tutti coloro che assistettero all'evento e anche coloro ai quali fu semplicemente riferito da amici o parenti o anche da Piero, il figlio della fioraia, che era lì con delle gerbere che doveva consegnare al macellaio; il quale, da parte sua, stava organizzando un rinfresco per l'inaugurazione di un nuovo punto vendita (in una posizione a mio modo di vedere infelice, sia per la vicinanza di un incrocio che rendeva impossibile il parcheggio ai clienti in auto e fastidioso il passeggio ai pedoni intossicati dallo smog, sia per l'elevato pendolarismo che caratterizza quella zone e che non favorisce un negozio delle caratteristiche di una macelleria).
Il fatto grave e tragico era anche doloso, in quanto organizzato da un tale che mi pare lavorasse per un'organizzazione criminale e che aveva tutto l'interesse a destabilizzare la città e il territorio. Questo delinquente fu affrontato in Piazza Mazzini, o Garibaldi, comunque una di quelle lì, non si scappa, da un tizio che invece veniva stipendiato o comunque lavorava per le forze del bene, dell'ordine, per la pace in terra; al termine dello scontro, che si concluse con la morte, la fuga, la cattura o la combustione spontanea del criminale (io stavo mangiando del croccante al cioccolato comprato ad una bancarella tenuta da uno di Ferrara coi capelli biondo rame, un grosso sorriso gioviale e un'andatura claudicante, che ovviamente non potevo notare all'atto dell'acquisto, ma che mi risultò poi evidente mentre lo osservavo dirigersi, vestito di un lungo pastrano verde e con degli strani stivaletti di gusto un po' anni Sessanta, ai gabinetti pubblici; in tutto questo lo scontro decisivo era ancora in corso, e questo spiega alcuni dei miei dubbi sul suo svolgimento. Peraltro, il venditore di dolci di Ferrara aveva tre figlie femmine, una delle quali -molto carina, con un naso appuntito e le sopracciglia fini ma folte e arcuate su un paio di gentili occhi verdi dallo sguardo deciso- lavorava con lui, mentre le altre due erano sposate e seguivano altre attività. Per una curiosa coincidenza, una di queste ultime, Maria, aveva come marito un mio amico d'infanzia trasferitosi ben presto dalla nostra città. Diedi dunque incarico al dolciaio di salutarmelo caramente), la città fu salva e tutti tirarono un grosso sospiro di sollievo.
Due giorni dopo arrivò il Circo di Foligno, con il divertente pagliaccio Cripta e una coppia di acrobate tagike bionde che fecero innamorare gran parte dei giovanotti della città, i quali le osservavano ammirati mentre eseguivano i loro difficili e rischiosi esercizi, in cui le centroasiatiche davano prova di grande armonia e bravura.

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21 aprile 2008

La primavera dell'amore

Torna la primavera, e con essa si riaffacciano alle nostre città gli apetti. Eccoli, garruli e ronzanti come nessuno: sono a cinque chilometri di distanza, arrancanti su una salitella di nessuna difficoltà per un dialitico in carrozzella, e già ci assordano col loro petare in tono acuto. Eppure li amiamo e ci riempiono di gioia, i nostri cari apetti carichi di rami, cravatte di seta, cadaveri e plastici scartati di immaginifici progetti per il Guggenheim di Bilbao. Arriveranno da noi esausti eppure ancora felici, con la metaforica lingua di fuori come altrettanti metaforici cani, e noi li ricopriremo di petali di rosa.
L'apetto è vita e giovinezza. L'apetto è la disarmante simpatia della sbandata in curva, della caduta nel fosso senza conseguenze gravi, della partenza alle tre del mattino, ubriachi di pessimo lambrusco (è antipatriottico ed è per l'appunto pessimo, ma costa poco), che spinge al risveglio e alla bestemmia dei pacifici abitanti della classicheggiante campagna marchigiana (dimentichi della loro gioventù apemunita; ma vanno scusati, si sono svegliati ora). L'apetto è armonia delle forme, è il ronzio che esce da un arco a tutto sesto, è il mezzo di trasporto più utilizzato nella Città Ideale, è il sorriso che ti giunge al viso quando li incontri una domenica pomeriggio che giri per strade verdi contornate di castelli e fattorie.
L'apetto, che di notte infastidisce i dormienti, di giorno getta nel panico gli automobilisti che lo seguono, perché ignora la linea retta e qualsivoglia stabilità; trasporta rena per scopi edilizi e ne farà cadere metà alla prima curva, decidendo l'infausto destino di quel pullman di pellegrini polacchi che procede dall'altra carreggiata e che suppone di dirigersi a Loreto. Sorella morte, fratello apetto, due volti dell'eterna commedia dell'esistenza, rappresentata ogni primavera in un angolo gradevole e se dio vuole soleggiato dell'Italia centrale (l'apetto, di passata, è per una socialdemocrazia sul modello scandinavo).

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17 aprile 2008

Lessico famigliare

-Caro?- disse la donna con tono angosciato, levando lo sguardo dal piatto di pasta che aveva appena toccato, -nostro figlio, non so come dire..., mi preoccupa.
-Che ha?- grugnì l'uomo ruotando gli occhi sotto le sopracciglia folte, ma senza sollevare granché il mento dal proprio piatto.
-Ha qualcosa che non va, temo.
L'uomo mosse le labbra come per dire qualcosa, poi, colto da un improvviso pensiero, si guardò intorno più volte, si pulì le labbra col tovagliolo e solo allora parlò:-E' frocio?
Disse questo con una voce appena percettibile.
-No, ma nella sua stanza ho trovato un manuale per fabbricare ordigni a partire dal fertilizzante, foto erotiche di canguri, un piano per rapire l'ambasciatore polacco e farlo combattere contro un pitbull, un pugno di ferro e una lettera di protesta a Italia 1 per la sospensione di Settimo Cielo.
-Ma non è frocio.
-E poi non va più a messa.
-Mh.
-Mi ascolti?
-Certo, hai detto che non è frocio. Se vogliamo occuparci delle sue priorità, badiamo a questo e lasciamogli vivere la sua vita; il resto sono ragazzate e passeranno.
-Ma caro...
-Ora lasciami mangiare.
-Ma il mitra?
-Gioventù, ma col tempo se ne guarisce. Passerà. Importante no frocio (masticando).
E per quella sera l'uomo, molto soddisfatto del buon pasto e delle parole tranquillizzanti della moglie, non lasciò più che pensieri molesti venissero a turbare la sua serenità famigliare.

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12 aprile 2008

Le giornate di uno scrutatore

Vado a fare il mio dovere per la nazione. Ma vi lascio questo regalino, nell'attesa del mio ritorno, che ho fatto io e dunque è carino. Se volete contestualizzare c'è anche questo.
Ciao.

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10 aprile 2008

C'era una volta, tanto tempo fa

C'era una volta... "Un re!", diranno i miei piccoli lettori. No, testoni: c'era una volta la marina jugoslava (Jugoslavenska mornarica). Tanto, tanto tempo fa, quando c'era ancora un buffo stato socialista con due alfabeti, tre religioni, quattro lingue e tutto il resto a crescere, c'erano anche delle navi lunghe e grigie ancorate in posti improbabili e fiabeschi come le Bocche di Cattaro. I marinai slavi dondolavano le loro lunghe gambe al di fuori degli scafi, mentre i cuochi di bordo affettavano siluri di cipolle e aggiungevano la carne macinata, e tutti erano passabilmente felici.
Un brutto giorno, però, la Jugoslavia si punse con un fuso e i rovi invasero i borghi e le città, cosicché la marina jugoslava non ebbe più porti in cui approdare. Essa dovette allontanarsi dai luoghi che le erano familiari e cominciò a girare il mondo, arrangiandosi per pagarsi le cipolle e la carne macinata. A Parigi, lavorò in un asilo e fece animazione per i più piccoli: i bambini toccavano la lamiera fredda e solitaria con un misto di paura ed attrazione, ritraevano le loro bianche manine francesi di burro e crema di latte, poi tornavano di nuovo ad accarezzare quel gelo che li affascinava; il marinaio Dušan Musić ricreava con abili mosse delle sue mani magre, tendendo e piegando dei palloncini, gli animali consueti che circondavano la sua casa di bambino a Nikšić o quelli sorprendenti che aveva visto un giorno allo zoo di Belgrado. A Dublino, la marina jugoslava suonò l'organetto per le strade, avendo letto in una novella di Joyce che si poteva, ma non riscosse il successo che sperava. A Catania, giocò nella locale squadra di pallanuoto e le fece vincere il campionato, poi se ne dovette andare per problemi di tesseramento. A Salvador de Bahia, cercò l'anima slava perduta nei fianchi generosi di una lavandaia negra.
Dopo di allora, cessano le notizie certe e imperano le dicerie e i pettegolezzi: ho sentito che è finita ad Amburgo, dove gestisce un chiosco di cibi balcanici su di un molo secondario, ma chi può dire quanto ci sia di vero in questa storia? Io credo che continui ancora a girare il mondo, in attesa che i rovi si ritirino e che si possa tornare a casa; se la incontrate, ditele che quel giorno verrà e ci ritroveremo tutti con le gambe a mollo nelle acque gelide di Cattaro.

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07 aprile 2008

Onnò! Un altro dannatissimo fantasy!

Potrei dire che riappaio solo ora perché, semplicemente, ho trascorso due settimane in un luogo privo di connessione alla rete; ma siccome in fondo mi risultate simpatici, vi narrerò quel che davvero mi è successo.
Ero lì, intento alle consuete pulizie di primavera (nello specifico mi ero infilato entrambe le dita indici nel naso, e attendevo ulteriori ispirazioni divine), quando mi è sembrato di veder balenare, nella fessura in fondo al vecchio armadio smaltato dei miei avi, una lampo di luce azzurra. Levate dalle froge le mie lunghe e eleganti falangi, le ho adoprate per aprire le ante, incuriosito: e mi sono trovato dinanzi un nitore abbagliante proveniente, contro ogni logica, dal fondo di buon legno del mobile stesso. Mi sono dunque fatto avanti per toccarlo e chiarire il mistero, mentre con l'altro braccio mi proteggevo gli occhi dalla luce: ma invece di trovare il fondo, vi sono caduto dentro, con quella sensazione inverosimile che si prova nei sogni quando si cade a capofitto nel vuoto, pur essendo in tutta evidenza sdraiati sul proprio materasso di casa.
La caduta è stata breve e priva di conseguenze, quasi una semplice capriola al di là del muro; mi sono trovato sdraiato su della morbida erba di un verde lucentissimo, con indosso un paltò anch'esso verde (recante sul bavero una spilla dell'esercito popolare jugoslavo) che avevo guadagnato nel passaggio per l'armadio. Ma la cosa più sorprendente di tutte, più ancora degli alamari di corno che serravano il paltò, erano le creature che zampettavano sul prato a poca distanza da me: munite di zoccoli e muso caprino, esse nondimeno procedevano erette nei loro grandi balzi, e soprattutto presentavano braccia e mani umane, nelle quali stringevano mestoli, cucchiai di legno, ramajoli e forchettoni; inoltre, il petto di queste strambe creature era fasciato da grembiuli e parnanze, mentre il capo degli esemplari più grandi e dominanti era sormontato da bianchi cappelli da chef.
-Sono le Capre Gastronome della Valle di Fersgrava, disse una voce alla mia sinistra.
-Chi ha parlato?, domandai, prima ancora di volgere la testa. Poi effettivamente la volsi, perché in fondo sono educato.
-Sono l'elfo Biondiccio, Camerlengo di Re Fastidio, sovrano di questa terra; e tu devi essere il suo nuovo scrivano.
-No, negai decisamente, e intanto presi ad esaminare il mio curioso interlocutore: questi era alto circa un metro e venti centimetri, ed assomigliava sostanzialmente ad un essere umano, non fosse stato per le otto bucce di banana, agganciate alla testa mediante spille da balia, che gli pendevano sul volto.
-Ma non sei tu ad essere caduto nell'armadio?, fece lui, mentre i lembi delle bucce si piegavano a mo' di punto interrogativo.
-Sì, sono io.
Sul suo volto apparve un'espressione di trionfo. Sorridendo a tutta bocca, affermò:-Allora sei davvero tu lo scrivano. Cadendo nell'armadio hai accettato i termini del contratto, e così dicendo mi sventolò davanti un foglio di carta giallastro e finto antico. Si trattava evidentemente del mio contratto, trascritto in bella grafia in un alfabeto a me sconosciuto. In basso a destra, al posto della firma o del timbro, campeggiava una grossa impronta di cane.
-E ora vieni con me, disse l'elfo, indicando con le bucce una direzione ben precisa.
-Dove andiamo?
-Al palazzo di Re Fastidio!
-Ma andremo a piedi?
-No... Immagina il tuo cavallo!
Dette queste enigmatiche parole, l'elfo si concentrò per un istante; dopodiché comparve sotto di lui un meraviglioso stallone dal pelo lucido e scurissimo. Io provai a seguire il suo esempio, e mi trovai a montare in rapida successione un orso, una zucchina, un grosso cane bianco e nero che mi fece molto ridere. Giunto al rinoceronte, risolsi di potermi accontentare. Partimmo dunque per il viaggio alla volta di Re Fastidio; intanto le Capre si accalcavano intorno ad un grande pentolone, tra belati di approvazione e scontri a mestolate per il controllo della dispensa.

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