23 luglio 2007

La fine di un mondo

Quando l’umanità intera decise di giustiziarsi a cagione dei propri misfatti, colui che doveva togliersi la vita per ultimo, l’ultimo uomo sulla Terra, si tirò indietro e continuò a vivere, violando i patti. I morti, rassegnati e tolleranti come di solito sono i morti, rimasero in silenzio e non protestarono per il mancato rispetto degli impegni presi: quella estrema ed ostinata vita, del resto provvisoria, non toglieva nulla alla loro morte. Dunque essi attesero.
L’ultimo uomo sulla Terra voleva vivere in solitudine e in solitudine godere di tutto quanto era stato costruito ed escogitato, di tutto ciò che era grande e meraviglioso. Passeggiando per il centro deserto, comprese però ben presto che non sarebbe stato possibile. Non c’era nessuna solitudine; ovunque andasse, era pieno di morti. Non c’era solitudine, c’era solo abbandono. Il primo giorno della sua nuova vita volle coronarlo con un bel pranzo. Passò davanti ad un ristorante che aveva avuto un gran nome, quando c’era ancora qualcuno a ripeterlo; si sedette ad un tavolo e non venne nessuno a servirlo. I camerieri morti lo fissavano, fermi, invisibili, inappuntabili; i cuochi erano al loro posto dietro i fornelli, ma le porte della cucina rimasero chiuse. L’ultimo uomo sulla Terra lesse il menù, mangiò dei grissini, poi raccolse le briciole nel pugno ed uscì in strada. Qui aprì la mano e le lasciò cadere. Piluccò qualcosa a casa e non gli piacque molto. La sera, con la città spenta, scoprì che la notte era nera e profonda ed ebbe nostalgia dei morti.
La mattina successiva si sentiva meglio. Non gli venne neanche in mente di andare a far colazione al bar. Decise di recarsi in biblioteca, dove poteva finalmente pensare a qualcosa che non fossero i morti che non aveva avuto il coraggio di seguire. Lesse molto, disordinatamente, ostacolato dall’ordine poco chiaro e dalle porte chiuse che celavano chissà quali tesori di conoscenza; la città era piena di porte chiuse, in quei giorni, e le chiavi corrispondenti erano strette nei pugni dei morti. Solo pochi non si erano fatti problemi a lasciare la casa aperta in un mondo vuoto; ma i più, forse timorosi che il vuoto entrasse a riempire le loro dimore approfittando di un’assenza così lunga dei padroni di casa, avevano serrato porte e finestre. L’ultimo uomo sulla Terra ruppe varie finestre, per permettere a cani e gatti dimenticati di uscire dalle case dei loro padroni morti; ma non entrò mai nelle case degli altri. Pensò varie volte che con tutto quel tempo davanti a sé, un giorno avrebbe di certo forzato l’ingresso delle abitazioni più vaste e più belle; ma non lo fece. Le piscine dei quartieri ricchi diventarono luride e stagnanti senza che lui vi infilasse mai un piede.
Dopo aver letto così tanto, senza nessuno cui potesse raccontare quello che aveva imparato, senza nessuno che potesse chiarirgli il significato di tante parole, l’ultimo uomo sulla Terra capì che la sua unica frontiera di conoscenza era lo spazio. Si avviò alla stazione, persuaso a seguire i binari fino alla città successiva. La stazione era ingombra di treni fermi come mummie, ma per nulla silenziosi. Il metallo delle carrozze scricchiolava e gemeva per l’abbandono dell’uomo; in compenso, piccoli animali grattavano le loro unghie sul pavimento dei vagoni che avevano trasformato in tane. L’ultimo uomo sulla Terra si avviò a piedi per la strada ferrata. Gli sembrava di aver camminato moltissimo, quando infine intravide un’altra stazione in lontananza. Credette di essere giunto nella città successiva, ma si trattava solo della piccola e spoglia pensilina di un quartiere di periferia, dove fermavano solo i treni dell’alba e del tramonto, pieni di fantasmi che andavano o tornavano dal lavoro. Ora quei fantasmi erano morti, e tutto era silenzioso. Cominciò a piovere. Inquieto, l’ultimo uomo sulla Terra si infilò in un cinema, rimasto misteriosamente aperto. La sala aveva un odore neutro e fortissimo. Si sistemò in un posto ottimo, ma nessuno fece partire la pellicola. I morti seduti vicino a lui seguivano con interesse il film che non iniziava. Rimase lì qualche ora, e quando uscì aveva i capelli bianchi. Non pioveva più. Tornò a casa.
L’ultimo uomo sulla Terra visse ancora lungo tempo, da solo in mezzo a tutti quei morti che continuavano la loro attività. Uscì sempre meno di casa, mangiò biscotti e lesse libri di poca o nessuna acutezza, libri che aveva trovato nella vetrina di una libreria. Egli vegetava ed era tranquillo, non fu mai più inquieto come quella sera piovosa trascorsa al cinema. Accettò il silenzio e il buio e visse nella città in cui era sempre vissuto.
Intanto il mondo moriva, cioè rinasceva: ogni giorno il verde spuntava dal grigio, ogni notte il nero avvolgeva il grigio. I morti, pur operosi, non riuscivano a restituire al grigio la sua passata importanza. Il paesaggio cambiava sotto gli occhi dell’ultima persona viva.
L’ultimo uomo sulla Terra mangiava biscotti, camminava e leggeva. Un giorno si avvide di star male. Rapidamente e senza rimpianti, si lasciò portar via da una malattia che non sapeva curare. I morti l’aspettavano, pazienti e fiduciosi che sarebbe arrivato. Infine, l’umanità fu riunita.
Intanto il mondo moriva, cioè rinasceva.

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