31 maggio 2010

The great escape

Il primo pensiero che ebbe, appena sveglio, fu quello di andare via. Giratosi sul dorso, restò a letto ancora un po', a riflettere: e concluse che davvero muoversi, non lasciarsi vincere dall'immobilità, darsi finalmente una mossa, insomma, era la cosa migliore. Infine scese dal letto, determinato a cambiare vita, infilò le infradito colorate da casa e si diresse al bagno.
Qui si concentrò brevemente sul rumore prodotto dallo scarico del water e su alcune questioni linguistiche, apparentemente insormontabili, che da qualche giorno gli frullavano in testa: perché si dica "io e te", ad esempio, quando non solo si utilizza viceversa "tu ed io", ma soprattutto "te" non è neanche la forma, per così dire, del nominativo. Portò le mani alle tempie e le massaggiò brevemente, ferito da questa incongruenza dell'italiano. Poi si ricompose e si lavò i denti a lungo e con una certa pignoleria. Pochi sanno in effetti che è consigliabile lavarsi i denti prima di colazione, e non dopo, perché solo così si ha la possibilità di ridurre la fauna batterica che poi andrà a cibarsi degli zuccheri del pasto; combattere quei piccoli bastardi quando hanno già iniziato il proprio banchetto, invece, è illusorio.
In cucina, riempì la cuccuma e la chiuse bene, poi mise a scaldare il latte, ma prima ne prese un lungo sorso. Ritornò col pensiero alla fuga che andava preparando, e la giudicò di nuovo necessaria. A volte, concluse tra sé, a volte la propria via la si trova alla fine di lunghe strade straniere sconosciute. Dunque bisogna trovare il coraggio di percorrerle, quelle strade estranee, e lui l'aveva trovato: mentre immergeva il mignolo nel latte per saggiarne il calore, si complimentò con se stesso per la propria tranquilla audacia. Obbligata, d'altra parte: di tempo ne aveva già perduto abbastanza, ed ora quel tesoro di momenti inutilizzati non esisteva più. Penso così, e continuò a fissare i biscotti che si ammorbidivano nel caffellatte.
Sarebbe partito dopo la colazione, che è pur sempre il pasto più importante della giornata e, per estensione, della vita di un uomo.

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20 maggio 2010

Un incontro in treno

La gente comune li odia e li disprezza, la loro nascita è per tutti un funesto presagio e viene ricordata per molto tempo; tanto che per conoscere la loro età è necessario ricorrere ai registri di nascita, che tuttavia non vanno oltre i mille anni, mentre gli altri sono andati perduti in incendi o durante disordini. Il modo più comune per sapere la loro età, è quello di chiedere loro quali re o grandi personaggi ricordano e quindi consultare gli annali di storia, poiché senza dubbio l'ultimo re di cui hanno memoria era salito al trono prima che loro avessero compiuto ottanta anni.
Costituivano la vista più mortificante che si possa concepire e le donne erano più orribili degli uomini. Non si portano addosso soltanto le deformità della estrema vecchiaia: un che di spettrale, veramente indescrivibile, si impossessa di loro aumentando con gli anni; fra una dozzina riconobbi il più vecchio, sebbene tra loro non corressero più di un secolo o due.
(J. Swift, I viaggi di Gulliver)

L'altro giorno in treno ho incontrato un immortale. Se ne stava lì, con il suo gilet grigio milletasche da normale uomo di mezza età e gli occhiali scuri, a guardare il mare celeste tra Falconara e Marina di Montemarciano. Mi sono seduto vicino a lui, e davanti a quello che sembrava un giovane cinese abbronzato e sovrappeso, per uno strano caso: ero salito in un'altra carrozza, che tuttavia evidentemente non mi aveva ispirato, prima di arrivare nello scompartimento dell'immortale.
-Com'è che non posso morire?, mi ha chiesto ad un certo momento, mentre io non gli badavo, con le doppie deboli e l'accento strascicato degli anconetani. In realtà la gran parte del colloquio si è svolto in dialetto; però, data la vicinanza del vernacolo marchigiano con l'italiano, posso portarlo in lingua senza tradirlo.
-Mi scusi?
-Sono immortale, mi ha spiegato allora, senza ottenere commenti da parte mia.
Mi sentivo un po' a disagio, seduto tra un cinese e un immortale e incapace di comprenderli entrambi. Il cinese aveva un portatile sulle ginocchia e indossava una maglietta con disegni manga: in generale, pareva totalmente avulso dalla nostra realtà.
-Non ci credi?, mi ha allora domandato di nuovo il tizio. La bocca, aprendosi, rivelava i larghi squarci tipici degli alcolizzati e di altri tossicodipendenti. Dal tipo umano, però, ho creduto più probabile si trattasse di un normale ubriacone.
-A che?
-Che sono immortale. Tu morirai, un giorno?
-Sì, io penso proprio di sì, ho risposto, un po' goffo e imbarazzato.
-Io no. Io non posso morire.
-...È una bella sfiga, ho detto allora io, perché mi erano venute in mente le pagine di qualche libro letto tanto tempo fa. E perché in effetti non morire mai, probabilmente, è un'esperienza frustrante.
La conversazione si è quindi arenata per un po'; io ho continuato a guardare il cinese perduto nel suo mondo e il mare di là dal finestrino dell'immortale, cercando però di non far cadere il mio sguardo su di lui.
-Com'è che sono eterno? Bella sfiga!, ha chiosato dopo qualche secondo il tizio, non so se perché davvero avesse condiviso la mia affermazione o per una qualche captatio benevolentiae. Io da parte mia, ho lasciato cadere lì la cosa.
-Vai a Bologna?
-Sì, ho detto io.
-Bella città, Bologna.
-Eh, abbastanza, via. D'improvviso eravamo una coppia di banali, mortali, conversatori da treno.
-Ci pensi mai alla morte? Già qui si tornava ad essere un po' stranini.
-A volte, ho detto io. In realtà ci penso piuttosto di rado, perché quando ci penso non mi piace.
-Non sempre?, ha chiesto lui, sinceramente stupito. Credo in effetti che un immortale non possa avere altri pensieri che quello della propria condanna.
-No, non sempre.
-Tu ci credi che sono immortale?
-Eh. È difficile da credere.
-Tu morirai, un giorno?
Cominciava a ripetersi, e la cosa mi stava mettendo a disagio. Il cinese grassoccio e scuro non mi era di alcun aiuto.
-Io posso stare un mese senza bere, ci credi? Ma io sono un mostro, com'è che lo sono? Non era meglio se ero normale?
Non sapevo che dire.
-Tu ci vai al mare, d'estate?
Questa era una domanda facile.
-Sì, ci vado.
-Dove?
-A Senigallia.
-Sei di Senigallia?
-No, sono di Arcevia, ma non abito più lì. Sto... in giro.
-Cosa sono, 38 km da Arcevia a Senigallia [sono esattamente 38 km]? Quanto ci vuole, tre quarti d'ora?
-No, ci vuol meno, la strada è tutta dritta. Una mezz'oretta basta.
-Bella la vita, eh? Quando potevo bere anch'io, era bella pure per me.
Silenzio.
-Lo conosci T*, di Arcevia?, mi fa.
-No, il nome non mi dice nulla.
Lì mi è dispiaciuto non poterlo aiutare, e soprattutto non aver modo un giorno di fare due chiacchiere con questo T* a proposito dei suoi amici. Abbiamo smesso di parlare per qualche minuto; ma continuavo a rimuginare su quella strana compagnia, e alla fine ho dovuto chiedergli che cosa diavolo gli fosse successo, in che maniera fosse diventato un mostro (nel senso latino del termine? questo, però, non l'ho domandato, ritenendo per snobismo che non avrebbe colto la questione. Sbagliavo, probabilmente) e un immortale.
Lui mi ha guardato.
-È successo quindici anni fa, una notte.
A quei discorsi, che pure non poteva sentire per via delle cuffiette del computer e perché probabilmente neanche li avrebbe capiti, il supposto cinese ha appiccicato sullo zaino una grossa spilla con la bandiera sudcoreana, quasi a voler dire: "Sono un orientale, non possiedo anima né trascendenza; lasciatemi fuori dalle vostre futilità filosofiche da uomini bianchi". O almeno io l'ho interpretata così.
Dicevamo.
-È successo quindici anni fa, una notte. Mi sono trasformato, sono diventato un mostro: mi sono spariti i denti. Non sono caduti, eh!, sono spariti. Prima ero normale.
Silenzio.
-Brutta fine, eh?, ha detto, rivolto ancora a me.
Abbastanza, ho pensato. Ma non ho parlato.
-Quella è una voglia? Ora toccava a lui fare le domande.
-Sì.
-Com'è che ce l'hai?
A questo punto ho raccontato brevemente e senza grande enfasi lo strano caso della voglia di salame sul mio polso sinistro, apparsa dopo (dopo, non "in quanto") mia madre in gravidanza si era sfregata ostentatamente la mano destra sul polso opposto dopo aver espresso il proprio desiderio di una fettina di salame campagnolo.
-Io invece prima ero normale, ha commentato l'immortale, non l'avevo mica, quella. Lavoravo in comune, viaggiavo, facevo la bella vita. Ma è la forma di una fetta di salame? Non si può togliere?
-Sì, si potrebbe togliere, ma ormai son quasi trent'anni che ce l'ho, mi farebbe strano toglierla. Dopo un po' ci si abitua, ho detto, e l'immortale ha annuito gravemente.
Poi mi ha chiesto l'età, che scuole avessi frequentato ("Liceo Classico a Jesi". "Vittorio Emanuele II?". Esattamente), se avessi fatto il militare. Abbiamo parlato della nascita a Jesi dell'Imperatore Federico II, lo Stupor Mundi, e lui ha correttamente precisato che questi nacque nel 1194. Gli ho descritto un po', per come l'hanno raccontata a me, la scena del parto in piazza dell'anziana Costanza d'Altavilla, davanti ai maggiorenti locali che dovevano certificarne la maternità.
All'inizio del viaggio gli avevo dato una sessantina di centesimi. Prima di scendere a Cattolica, ha chiesto con estrema cortesia ad alcune ragazzine pesaresi il denaro per arrivare ad un euro per il caffè, poi se n'è andato. Il coreano non ha avuto reazioni di alcun tipo né durante la nostra conversazione né in seguito.
E questo è quanto so dell'immortalità umana.

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12 maggio 2010

Istruzioni per farsi voler bene dai marchigiani

Lamentarsi con loro di qualcosa, quando ne vedete uno, va più che bene: il lamento e le disgrazie in generale sono un ottimo argomento di conversazione. Molto spesso abbiamo un prozio caduto in un fosso, o un qualche conoscente che si è fermato su una scala a pioli perché d'improvviso non si ricordava più come si facesse a salire, finché il legno non è marcito sotto il suo peso e il povero smemorato non si è rotto una gamba; la gente sta al mondo a tribolare, di base (e noi questo lo sappiamo bene), per cui non vi sarà arduo trovare empatia in noi. Se sorridiamo, non fateci caso e non immaginate chissà che: è solo che il mondo è divertente, anche nelle disgrazie, e in fondo ci si sta bene. Ci sarà venuta in mente la faccia del povero conoscente caduto dalla scala, o il motto arguto dei suoi primi soccorritori. Le disgrazie sono insomma un ottimo argomento di conversazione, purché non si esageri: non è che capitino solo a voi, e in fondo dopo un po' le vostre piaghe, per quanto purulente, perdono d'interesse.
Un'altra ottima idea è vantarvi dei vostri successi, della vostra gloria, della bellezza di quello che è vostro o vi è familiare per nascita o per qualche altro caso: noi siamo solo dei poveri marchigiani, ci rende felice sapere che al mondo, al di là delle nostre medie e placide rotondità, esistono cose grandi e meravigliose. Ascolteremo dunque con attenzione e anche con moderata partecipazione. Se sorridiamo, non fateci caso e non immaginate chissà che: è solo che il mondo è enorme ma limitato, e il vostro tanto non è poi così grande rispetto al nostro piccolo, cui in fondo siamo affezionati. Qualsiasi tanto sfigura poi di fronte allo spazio che non ha termine, al tempo di cui non vedremo la fine, alla perdita d'interesse nelle cose che è umana, e marchigiana. Ci interessa tutto quello che vi rende orgogliosi, e siamo felici per voi: ma dopo un po' ci piacciono parole distanti e dubitative, e un bicchiere di vino rosso.
Se c'è da festeggiare e far rumore, ci siamo sempre. Dobbiamo solo finire questo lavoretto, o guardare ancora un po' di là dal poggio una macchia che forse si muove, o forse non è niente. Dateci tempo e abbiate pazienza con noi, coi nostri silenzi, con il nostro sorriso e la nostra lentezza: noi vediamo l'alba, non abbiamo idea del tramonto e di come finiscano le cose. Dobbiamo inventarci tutto nelle nostre piccole menti, o affidarci ai racconti di chi viene da fuori e ha visto più di noi. Ma in fondo non ci crediamo del tutto, e restiamo attaccati ai nostri pensieri. Se volete che vi sorridiamo ancora, restate in silenzio con noi e immaginate per il sole un percorso diverso: tanto a voi non costa nulla, e a noi ci rende più felici.

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