15 aprile 2009

Adriatisches Küstenland

Era un maggio così allegro e luminoso, sull'Adriatico, che neanche gli albergatori riuscivano a fingere la loro usuale faccia corrucciata e a dichiararsi preoccupati del calo degli arrivi o di qualche altra contingenza: in effetti, c'era ben poco di cui lamentarsi, perché i campeggi erano pieni e le pensioni straboccavano, e anche gli agriturismi e gli alberghi dell'interno non avevano un solo posto libero.
Quel che maggiormente stupiva era che la quasi totalità di questa anomala ondata di entusiasmo era dovuta ad un ritorno in massa dei tedeschi, dopo decenni in cui la principale occupazione degli albergatori e dei ristoratori era stata quella di estorcer loro denaro per servizi discutibili, mentre da parte loro i bagnini e i semplici aborigeni non cessavano di molestare le figlie e le mogli dei turisti teutonici ciondolanti in sandali per la riviera o addormentati e arrossati sotto gli ombrelloni. L'assemblea degli operatori del settore volle vedere in questa invasione un riconoscimento della propria grande e tradizionale ospitalità e dell'elevato livello dei servizi offerti; poi tutti si misero a ridere e tornarono a discutere seriamente.
Ad ogni modo, qualunque fosse la ragione di ciò, tutti gli indigeni che ne avevano qualche tornaconto si fregavano le mani vedendo le proprie città ripiene di teste bionde, come krapfen all'albicocca; la maggiorparte della popolazione era invece sostanzialmente neutra e non aveva opinioni al proposito. Solo qualche vecchio rimbambito scuoteva il capo e alzava il bastone, mormorando assurdità cui nessuno faceva caso.
Una mattina tutto cambiò. Numerosi ufficiali dell'Esercito Italiano e delle varie forze dell'ordine responsabili delle piazze adriatiche si svegliarono in qualche stanza d'albergo, legati ed imbavagliati, e si rammaricarono troppo tardi di non saper distinguere una sedicente sciampista di Hannover da una sottotenente della Bundeswehr; in perfetto coordinamento d'azione, da ogni campeggio della costa sciamarono truppe speciali equipaggiate di tutto punto, con anfibi d'ordinanza al posto dei soliti Birkenstock; un'enorme tenda, che aveva suscitato l'ammirazione dei locali quando era stata montata, risultò celare addirittura un Leopard di ultima generazione che, mentre ancora albeggiava, prese possesso del municipio di Caorle. Grado e Lignano caddero nelle prime ore della mattinata, Portogruaro le seguì di poco, mentre più a sud Senigallia e Fano - placide e indifese - non furono in grado di opporre alcuna resistenza e issarono ben presto il tricolore di Francoforte. Le caserme di Rimini erano in mano alle finte turiste già dalla notte, mentre una comitiva di anziani norimberghesi scesi da un charter con dei buffi cappelli prese possesso con fredda efficienza dell'aeroporto cittadino; l'enorme e orribile grattacielo della stazione venne demolito da un attacco aereo e smise per sempre di costituire un pericolo per l'avanzata tedesca e per l'armonia del paesaggio urbano. Quando spuntarono dei pezzi di artiglieria dal castello di Miramare e dalle alture circostanti, anche Trieste si arrese e tornò così alla sua funzione storica di baluardo germanico sull'Adriatico Orientale.
Alle tre del pomeriggio di quel sabato di maggio solo Ancona e Venezia si mantenevano fedeli al governo italiano, oltre ovviamente a Ferrara, Rovigo e Ravenna, la cui intangibilità era garantita dal clima malsano e dalle paludi che già avevano protetto gli ultimi ridotti bizantini dalla conquista longobarda, molti secoli prima. Pesaro aveva innalzato bandiera bianca dopo brevi scaramucce tra i capannoni della zona industriale; le truppe tedesche, certi indossando ancora le simpatiche t-shirt comperate nei giorni precedenti per non destare sospetti negli italiani, entrarono in città dalla pregevole pista ciclabile che corre verso Fano.
Venezia, senza più difese proprie, senza più navi, senza più un arsenale, volle comunque provare a organizzare una resistenza, ma fu piegata dalla barbara minaccia degli invasori, pronti - così dissero essi stessi - a piantare picchetti da tenda nei marmi e negli stucchi dei palazzi veneti. La capitolazione fu dunque inevitabile.
Intanto, la Repubblica Italiana sollevò con procedura d'urgenza la questione di fronte al Consiglio di Sicurezza dell'ONU; l'ambasciatore russo, sul cui sostegno si confidava grandemente, affermò tuttavia di non vedere niente di censurabile nella condotta della Repubblica Federale di Germania, poi chiese all'ambasciatrice dell'Eritrea se le andava di fare un giro sulla sua nuova Porsche e si allontanò fischiettando dal Palazzo di Vetro. Nel frattempo l'ambasciatore degli Stati Uniti cercava N'djamena su una cartina delle Marche da colorare, perché gli sembrava giusto documentarsi sulla questione dibattuta.
Mentre falliva ogni sforzo diplomatico, la situazione per il governo italiano si aggravava anche dal punto di vista militare. Pullman di pensionati amburghesi terrorizzavano ogni angolo della pianura friulana e stringevano sempre più l'assedio a Udine; per la prima volta dalla sua troppo tardiva costruzione, Palmanova si trovò a verificare la bontà della sua pianta stellata, certificata da numerosi assalti falliti; soltanto l'impiego dell'aviazione, che non poteva essere d'altronde previsto da nessun ingegnere militare della Serenissima Signoria, poté piegare quella munitissima fortezza. Investito il Friuli, la poderosa macchina militare germanica mosse verso il trevigiano alla conquista di vigne da utilizzare per il triste e infame compito di servire le fabbriche di Prosecco in lattina. Le ronde cittadine di Conegliano si fecero coraggiosamente incontro ai Teutoni avanzanti, ma dodici camicie verdi non sopravvissero al tentativo di guardare nella canna dei propri fucili per vedere se erano carichi, mentre gli altri furono rotti in fuga dalla soverchiante macchina bellica nemica. Un monumento nella pineta di Follonica ricorda tuttora il maldestro sacrificio dei dodici eroi, ed è in produzione una fiction sulle loro gesta.
Ancona restava invece protetta dalla sua natura capricciosa, da quei saliscendi continui, che estenuavano i piedi dei tedeschi e i loro calzini bianchi, e dall'angustia delle vie d'accesso alla città. Passarono così diversi giorni, con gli anconetani che resistevano coraggiosamente alla potenza germanica, come già fecero dinanzi alla protervia del Barbarossa, e attendevano - come allora - soccorsi dalla fiera e bellicosa Romagna. Ma la Romagna era domata, e le piadine giacevano a terra insanguinate. Quando poi giunse notizia che le case coloniche dell'entroterra ristrutturate da tedeschi e gli agriturismi che ne ospitavano in gran numero si erano trasformati in altrettanti fortini e casematte, gli anconetani uscirono a negoziare la resa, ottenendo in cambio lo status di capitale del neo costituito Land che riebbe l'antico nome di Marken. Esso fu completato nei giorni seguenti, quando le truppe che avevano attaccato Ancona furono disponibili per l'assalto all'orgogliosa Ascoli: come altre volte nella sua storia più lunga di quella di Roma, il capoluogo piceno si preparò a sostenere un assedio, e un nugolo di olive fritte volò dai bastioni ad accogliere il nemico, come ventuno secoli prima volavano le ghiande di piombo contro i Latini oppressori d'Italia. Il valore dei Piceni, tuttavia, non poteva bastare, e ben presto il confine federale raggiunse de facto le rive del Tronto. Da Pescara giunse allora l'avviso che i tedeschi non avrebbero potuto prendere la città, perché "Nu semm li chiù frign" e non è notoriamente possibile ad alcun umano battere i pescaresi. Il comando della Bundeswehr prese atto del comunicato, precisò comunque di non avere interesse a ulteriori allargamenti territoriali, si tolse gli stivali e tornò - stavolta da padroni, e guai a chi infastidisce le nostre figlie - a sdraiarsi sulle spiagge appena pacificate.
Il territorio conquistato fu diviso nei tre Länder di Freie Adriastadt Triest, Friaul und Venedig e le già citate Marken (cui furono aggregati la provincia di Rimini e il cesenate, facendo finalmente contenti quei traditori della Valmarecchia).
Lo Stato italiano non fu assolutamente in grado di reagire e dovette accettare la mutilazione territoriale, mentre le popolazioni occupate si dovettero rassegnare al dominio tedesco. Ancora oggi la costa adriatica, ben governata ed amministrata, in pieno decollo economico e caratterizzata da una civiltà nei rapporti umani e da un rispetto della cosa pubblica mai registrati prima, langue e geme sotto il tallone straniero.

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