20 ottobre 2010

Il momento della fuga

Era fatta. Finalmente li portavano in gita in barca, come avevano promesso da un po', e già le ragazze fremevano nei loro parei gialli e verdi, brillanti come i sorrisi nei loro occhi. Lui se ne stava lì accanto e le guardava con una smorfia delle sue, una di quelle facce che non si sa cosa vogliano dire; non possedeva una grande espressività facciale, e per questo a volte passava per misterioso e perfino per affascinante. Almeno una di quelle ragazze la pensava così, in effetti: lo si capiva dalla cortesia con cui lo trattava, dalla fretta ingenua di attaccare discorso, e da mille altri dettagli che a lui sembravano chiarissimi e che gli strappavano un sorriso, o una smorfia, o una di quelle strane facce che faceva lui.
Lei non era né bella né brutta. Il suo viso, dai tratti gradevoli, aveva tuttavia una forma inconsueta ed eccessivamente triangolare, molto felina; il corpo, invece, era insieme florido ma sodo e robusto. La ragazza, lo si vedeva anche dal costume tecnico che indossava, praticava nuoto a livello agonistico (probabilmente per combattere la sua tendenza a mettere su peso). Tutto questo, in ogni caso, non contava: l'unica cosa che contava era allontanarsi dalla costa.
Alla fine salirono tutti: le ragazze come ospiti, lui come loro accompagnatore. Lui, che si sentiva sempre in colpa per un sacco di cose, pensò non senza disagio che al ritorno le avrebbe lasciate senza accompagnatore, contro ogni deontologia e venendo meno all'impegno che aveva assunto. L'uomo aveva deciso, infatti, che avrebbe approfittato del bagno in mare aperto, di cui le ragazze già parlavano, per allontanarsi il necessario e lasciarsi affogare. Era già tutto stabilito da giorni; nel frattempo, partecipava con accettabile arguzia alle discussioni delle giovani.
Quando infine si gettarono in acqua (non erano poi così lontani dalla riva, ma la distanza era comunque sufficiente), non rimase a fare capannello con la massa delle ragazze, ma seguì la sua timida innamorata che già mulinava bracciate; era un ottimo pretesto per allontanarsi, e già dopo una trentina di secondi si fermò, controllò che le altre fossero distratte e si infilò sott'acqua. Ne riemerse qualche secondo dopo, perché non è facile ammazzarsi così (dal punto di vista meccanico; moralmente, non aveva rimorsi né ripensamenti), e si preparò a tornare sotto definitivamente. Lo colpì però diretto negli occhi il sole del pomeriggio, e lo costrinse a voltare lo sguardo; davanti a lui, ora, c'era una scia bianca che si assottigliava e si perdeva sempre più, e a produrla erano le bracciate profonde e vigorose della ragazza. La osservò un attimo, i raggi del sole che scaldavano le sue braccia abbronzate e i capelli castani che uscivano a momenti dall'acqua. Nell'insieme, lei gli ricordò un gatto di bronzo che tanti anni prima faceva da fermacarte alla sua prima maestra elementare. Quel gatto di bronzo, approssimativo e bruttarello, era stato fuso - lo ricordava ancora precisamente - da qualche classe precedente nell'ambito di un laboratorio o per un esperimento. Quella ragazza somigliava in qualche maniera a quel gatto di bronzo, e lui prese a seguirne la scia.
La raggiunse mentre riprendeva fiato, guardando la spiaggia, e l'abbracciò da dietro. Lei non disse nulla.
Continuò ad abbracciarla anche sulla barca, al ritorno, mentre chiacchierava con le altre, e lasciò che il suo costume intero blu (un costume da vera nuotatrice), che ancora ansimava un po' all'altezza del petto, si asciugasse su di lui. La ragazza muoveva ogni tanto il fondoschiena, con discrezione, per riattizzare la sua erezione; non per malizia o per desiderio sessuale, più che altro perché gradiva quella consistenza e quella pressione.

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06 ottobre 2010

Il perfetto simulatore

Agli occhi delle persone che mi circondano io sto bene, sono una persona serena e sorridente, non c'è nube al mondo che possa coprire il mio sole; e non crediate che questa impressione totalmente fallace sia solo il prodotto consueto - lo vediamo tutti i giorni al telegiornale - di una conoscenza breve e superficiale, di poche parole buttate lì sul pianerottolo di casa di fronte a persone che in realtà non sanno nulla della mia vita. No, tutt'altro: più mantengono rapporti stretti e continui con me, più mi ritengono persino felice. Sospetto anzi che qualcuno dei miei parenti e amici nutra verso di me una qualche invidia: lo vedo da una minuscola increspatura nei loro sorrisi, da un'opacità nei loro sguardi. Il diavolo, com'è noto, è nei dettagli, e da quelli è individuabile; ma il demonio è anche stupido e perdente, e in effetti le gelosie che esso ha instillato nei miei confronti sono ridicole e basate sul nulla.
Io sono in realtà una persona molto infelice. I miei numerosi progetti si sono rivelati dei fallimenti, sfasciandosi sugli scogli della realtà come imbarcazioni sbattute dalla tempesta; i miei sogni, d'altra parte, sono sempre rimasti vuoti, a terra, e mai è giunto un vento propizio a soffiarci dentro, a riempirli, a farli salpare per le loro sognate destinazioni. Quanto alle speranze, mi pare di non averne neanche più; e questa stravaganza è il sintomo più evidente della mia disumanità, della mia distanza dal mondo, della mia voglia di morire.
L'unica cosa che mi rimane di umano è l'ambizione. La mia, d'altronde, è un'ambizione piccola e piuttosto limitata, riconducibile a quella classica che appartiene alla maggior parte degli uomini e che consiste nel voler fare bella figura con i nostri simili. Io, più modestamente, mi accontento di non farli soffrire; quello che chiedo alla mia esistenza, di per sé ormai inutile e assolutamente incapace di regalarmi qualsiasi soddisfazione, è che essa distribuisca a chi viene in contatto con me un po' di gioia, di tranquillità, di pace. Solo questo obiettivo e questo scrupolo mi frenano dall'impiccarmi; non credo, infatti, che le conseguenze della mia vita abbiano termine con la morte e che tutto il resto non debba più interessarmi. Penso invece, sono convinto che il dolore è persistente e stagnante, e che esso, gocciolando dalle disgrazie umane, si insinui a fondo nelle vite degli altri, le contamini e le avveleni. E non voglio arrogarmi il diritto di portare ad altri un dolore che non hanno chiesto, fuggendo dal mio posto in battaglia e causando la sconfitta e la rovina dei miei vicini di scudo. Però neanche voglio restare e partecipare a una guerra che ho già perduto.
La soluzione che ho escogitato per ovviare a questo problema è piuttosto semplice: sono passato dal fotografo, l'altro giorno, e gli ho chiesto di fotografarmi in costume da bagno e poi di farne una gigantografia che rispettasse le mie reali proporzioni. Lui, piuttosto sbigottito, ha comunque adempiuto al proprio compito. Io ho pagato, l'ho ringraziato e me ne sono tornato a casa. Lì mi era rimasta da compiere soltanto la seconda parte del mio piano, ossia cucire quella gigantografia su un grande asciugamano da mare. La mia immagine sorridente e serena su di esso, nella mia idea, dovrà infatti servire a coprirmi quando mi getterò dal terrazzo di casa mia. In questo modo i vicini, guardando verso il basso, mi vedranno felice, intento a prendere il sole su quel telo; e sotto quel sudario ci sarà invece il mio corpo, il volto frantumato e reso irriconoscibile dall'impatto col terreno, i miei tratti che qualcuno ha giudicato gradevoli, di cui si sono perfino innamorati, perduti per sempre, mentre gli organi interni saranno una sola inconsistente poltiglia, come nevischio sulla via del disgelo. Ma l'importante è che io paia star bene, ancora e per l'ultima volta.
Sto finendo di cucire.

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