26 gennaio 2012

Storia di un menomato

Vedete a che guasti può portare l'ossessione per il proprio aspetto esteriore...! Io, ad esempio, sono (o meglio, lo ero: adesso sono solo un vecchio), io sono, dicevo, un uomo nient'affatto brutto, con un bel naso franco e diritto, capelli folti e lisci, di un colore tra castano e rossiccio, e labbra gentili, forse un po' femminee, rese però meno equivoche da un mento piuttosto forte. Ma sono sempre stato miope, di una miopia sempre meno trascurabile man mano che passavo giorni e anni sui manuali di scuola e su altri accidenti dello studio e del lavoro. Solo che mi ero messo in testa che stessi male con gli occhiali; allora, in ogni occasione anche vagamente pubblica (anche se si trattava solo di un'uscita con gli amici, per dire), evitavo di presentarmi coi miei buffi occhiali d'osso - oh! detta così fa ridere: ma all'epoca, vi assicuro, erano occhiali normali... - e rinunciavo, di fatto, a gran parte delle mie facoltà visive.
Questa decisione, e io non potevo ignorarlo né lo ignoravo, aveva delle conseguenze: ricordo che più volte venni rimproverato da conoscenti che non avevo salutato, nonostante fossi passato loro accanto nella piazza del mio paese; certi parenti mi tolsero a loro volta il saluto, invece, perché al funerale di un prozio non li avevo degnati di un cenno; e poi smisi anche di andare allo stadio, perché senza occhiali non vedevo nulla e con gli occhiali avevo l'impressione che i giocatori in campo passassero il tempo a guardare me, seminascosto nei distinti ma reso inconfondibile dai miei occhiali d'osso. Tutto questo, in ogni caso, non è ancora niente.
Una sera un amico che mi ero fatto all'università - mi sedevo vicino a lui perché mi serviva qualcuno che mi spiegasse le scritte alla lavagna - mi invitò a una festa a casa di certe sue amiche, ragazze di buona famiglia di una cittadina vicina che i genitori bottegai mantenevano, per non fare brutte figure, in un appartamentino estremamente decente alla prima periferia della nostra città, più grande e munita di un ateneo antico e glorioso. I giovani, in ogni epoca, credono in assoluta buona fede di avere inventato il divertimento e la trasgressione; ma non è vero, non è mai stato vero (se non, forse, per la prole scapestrata di Noè). E in effetti anche noi, sebbene avessimo vestiti castigati e ballassimo canzoni melense, ci divertivamo; non invidio, ai giovani d'oggi, una libertà che è fin troppo vigilata...
Ma non divagherò oltre. Mi feci bello davanti allo specchio, pettinai all'indietro i miei capelli lisci e indossai una camicia chiara; una giacca nera rubata a mio padre e una cravatta stretta sottolineavano il mio fisico asciutto. Andai alla festa, ma sulle prime non mi divertii; mi disturbava l'ostentazione di ricchezza da parte di quelle figlie di parvenu e le loro acconciature copiate pari pari dai film americani. Poi la vidi: vidi i suoi capelli biondi, gli occhi che scintillavano di una luce verde e azzurra che non potevo aver inventato a causa delle mie imperfezioni, un viso magro, dai contorni freddi e rigorosi. Chiesi al mio amico, conoscendo il mio difetto, se era davvero così bella; lui confermò con entusiasmo, e io mi avvicinai a passi decisi e le chiesi di ballare.
Ma quando avevo già chiesto il suo braccio, quando già le avevo sorriso, mi ritrovai a una distanza da cui mi era agevole constatare il mio errore: i suoi occhi verdi-azzurri non li avevo inventati, certo, ma non avevo visto la loro acquosità bovina, né il loro piegarsi mestamente all'ingiù. Il viso, poi, non aveva nulla di ciò che credevo: quegli spigoli seducenti li aveva modellati il mio astigmatismo, giacché in realtà il suo era un ovale perfetto, ma molle, privo di imperfezioni tanto quanto mancava di carattere. Mi dissi immediatamente che la sua bellezza era del tipo di quelle che stancano presto; né la gobbetta sul suo naso, che non avevo ovviamente scorto e che adorai, bastava da sola a contrastare quell'impressione. Tuttavia, le avevo chiesto di ballare e ballai. Si dà il caso che io fossi un ballerino più che discreto; un caso sfortunato volle che anche lei sapesse muoversi benissimo.
Ballammo a lungo, finché lei, con una mossa che all'epoca poteva venir definita sfacciata, mi trasse da parte perché voleva parlare con me. Ci dicemmo molte cose; ma non le dissi del suo viso molle e del mio errore. Acconsentii a rivederci, di tanto in tanto. Ma non seppi mai dirle che era una donna di cui mi sarei stancato; in seguito scoprii che avrebbe ereditato una piccola fortuna, e lo scoprì anche la mia famiglia, il che complicò le cose e insieme le accelerò. Ci sposammo nel duomo della sua cittadina, un meraviglioso edificio barocco irrimediabilmente rovinato dagli stucchi settecenteschi; ci nacquero poi due figlie che assomigliano a lei, poi, più tardi, un maschio che non somiglia a nessuno e che ha solo le mie labbra da donna.
Ȅ stata una buona moglie e un'ottima compagna e non mi lamento di lei. Grazie a lei ho avuto una vita tranquilla e ovattata e una famiglia che tutti mi invidiano. Però, quando abbraccio i miei nipotini, mi chiedo sempre cosa sarebbe stato della mia vita, se quella volta la mia vanità non mi avesse tratto in inganno, e come sarebbe prendere in braccio i nipoti della donna che avrei incontrato e avrei amato. Allora li metto giù, con la scusa di andare a fumare sul balcone (protestano, con le loro vocine stridule, e dicono che il nonno non dovrebbe fumare: ma cosa vogliono da me, questi qua?), e penso a dove sarà ora quella donna, e ai suoi nipoti. Gli occhiali, da quando mi sono sposato, non li ho più tolti; e certe mattina che il sole filtra fra le tapparelle, e lei dorme ancora, apro gli occhi e osservo la luce sui suoi capelli, che sono passati da biondi a bianchi senza ingrigire, e la deliziosa gobbetta sul suo naso, e penso che chissà, forse non è vero che ho sbagliato o mi sono ingannato. Poi allungo la mano verso il comodino, inforco i miei occhiali di foggia antica, e sospiro.

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