27 luglio 2010

Le donne belle

Le donne più belle, quelle che prediligo tra tutte, sono bionde, hanno sempre lavorato e lavorano, e se le vedi ferme non è che una pausa: si legge la fatica sui loro volti cotti dal sole, dove i loro occhi azzurri si sono ritirati come in fondo ad una valle, e di laggiù splendono come rivi freschissimi. I loro corpi possenti fremono in attesa di tornare al lavoro, e anche se sono vestite paiono giumente lucide di sudore.
Le donne più belle hanno capelli neri, raccolti, e portano al collo e alle orecchie ornamenti d'argento: una sola ciocca sfugge e cade sul viso e sul naso diritto. Portano vestiti bianchi e leggeri, e il lino accarezza le loro forme delicate.
Le donne più belle di tutte sono di chiome castane, le loro spalle sono larghe, la loro lingua non è la tua; pensano e leggono, perché non sanno parlarti, stringono un ciuffo di capelli già lisci e lo lisciano ancora, insoddisfatte. Lentiggini appena visibili cadono sulle loro guance come stelle sui campi d'agosto, e il loro seno generoso richiede, o piuttosto esige, una grandine di baci.
Le donne più belle possiedono occhi grigi, dubbiosi: occhi che sembrano aver visto tutto e non possono promettere nulla. C'è molta tristezza in fondo a quegli occhi, perciò è una sfida e una responsabilità convincerli che invece, a volte, la vita deve essere meravigliosa, e ancora piena di sorprese.
Le donne più belle, quelle che maggiormente amo, hanno nasi antichi, dalle narici larghe, regali; ogni loro gesto è fatto di fastidio, anche quando sono gesti d'amore. Hanno seni arroganti, che si innalzano sotto la maglietta. Le loro occhiate colme di disprezzo ti gonfiano di tenerezza e di desiderio.
Le donne più belle sono alte, asciutte, hanno gambe lunghe e occhi grandi, un po' acquosi. I loro sguardi sono dolci e i loro seni minuscoli; quando si siedono in terra, le cosce sono pali di tende e sorreggono il mondo, e tu non vuoi nient'altro che infilarti sotto le loro gonne.
Le donne più belle hanno volto largo, e amplissimi sorrisi scoppiano d'un tratto sul loro viso. I loro zigomi sono alti, di certo vengono dalle infinite pianure di là dal mare; e quando posi le tue mani sui loro seni, le grandi guance diventano rosse come le steppe al tramonto. Ma non smettono di sorriderti.
Le donne più belle sono magre e nervose, hanno seni piccoli e appuntiti e capelli scuri, si muovono come se avessero perduto qualcosa, ma non ricordano cosa sia. Neanche l'abbraccio più saldo e tenero può fermarle a lungo; ma in quei brevi momenti di calma il loro abbandono è caldo e totale.
Le donne più belle hanno occhi verdi e labbra dolcissime, che sembrano disfarsi sotto i baci; la loro pelle è quella delle bambole di un tempo, e la loro carne è soffice e rosata. Le loro cosce hanno l'apparenza della madreperla, e come quella nascondono un incanto raro.
Le donne più belle hanno visi strani, a volte buffi, ma i loro occhi sono di giada e lampeggiano come quelli della tigre. Così sono fatte le donne che deluderai, quelle che farai piangere; e anche quando tutto sarà finito, superato, dimenticato, quando ogni cosa ti parrà a posto, gli occhi di tigre non ti perdoneranno mai.
Le donne più belle hanno le mani grandi e sul volto i segni degli anni che hanno vissuto quando tu ancora no. Nei loro capelli ci sono vene ramate, i loro corpi sono vasti e accoglienti. I loro abbracci sono sinceri ma un po' ironici, e i loro visi ridono anche con le lacrime.
Le donne più belle sono quelle che vedi sull'altro marciapiede, un giorno che piove, e la loro figura si perde tra gli ombrelli; o l'amica bionda - esile, i capelli corti - di una ragazza che poi forse non ti piaceva, ma con cui ormai sei uscito; e dopo anni ricordi soltanto il nome dell'amica e la sua figura diafana, e della ragazza con cui uscivi non sai nulla. Le donne più belle esistono sempre e ovunque, e questa è senza dubbio una gran consolazione.

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24 luglio 2010

Una stanza

L'uomo era sul letto, al centro della stanza. Il letto era ampio, bianco, e pareva comodissimo. L'uomo sul letto, sotto il cui peso il materasso di buona qualità si abbassava soltanto leggermente, aveva un sorriso largo e placido e stava andando a fuoco.
Attorno al suo capezzale, quattro uomini si guardavano. Ffffhhh, fffhh, fece uno. Che fai?, gli domandarono. Spengo il fuoco, rispose l'altro, e poi ricominciò: Fffff, fffh. Soffiando, gli dissero. Fffffh, fu l'unica risposta. Non sai che se soffi troppo forte poi rischi che ti scoppi una vena in testa, rischi di morire, o rischi di vivere con la testa piena di sangue, il che forse è anche peggio, ché poi la gente ti guarda negli occhi ed ha paura, di tutto quel sangue dietro la cornea?
Quando sentì queste parole, quello che soffiava smise di soffiare. Un altro andò a prendere dell'acqua, ovvero, sarebbe voluto andare a prendere dell'acqua, ma nella stanza non c'erano secchi né contenitori di altro genere, e quindi come si faceva? In più, gli fecero notare, si era d'estate e ogni estate bisogna fare i conti con la siccità. Due anni prima, gli ricordarono, in questo periodo c'era pochissima acqua nella Gola del Furlo, e lui voleva sprecare quel poco che c'era per scopi nobili, certamente, ma comunque non per berla? Poi l'acqua non bevuta non si riforma, è acqua buttata via. Gli spiegarono, a quello che voleva andare a prendere dell'acqua e già se n'era pentito, che l'acqua bevuta, poi espulsa, torna in circolo e in qualche maniera è di nuovo riutilizzabile, dunque si può bere moltissimo senza sentirsi in colpa (l'importante è recarsi al gabinetto con regolarità); ma l'acqua gettata negli incendi, è acqua bruciata, che chissà dove finisce e che nessuno è in grado di recuperare. Sorpreso da tutte quelle critiche, il tale che non trovava il secchio ammise che l'anno precedente era stato anche lui allo stadio di Rimini. Questo mise in difficoltà i suoi detrattori, che non seppero replicare. Alla fine convennero tutti su un certo gol di Mastronunzio.
Per uscire da quell'impasse si misero a pregare, ma la loro fede non era sincera e il fuoco non si spense. Allora parlarono di fede e religione, ma non sapevano che dire e smisero presto. Uno propose di svegliare l'uomo sul letto, ma lo zittirono subito, ricordandogli che essere svegliati è un grave trauma di cui uno può anche morire o che può causare un singhiozzo persistente. Così pensarono una maniera per fare le cose senza incasinarne altre, tutti insieme, ma non era facile. Le cose, a ben vedere, sono tutte strettamente collegate come anelli di una catena: e tu, lettore, prova a far del bene, lo vedrai che non è facile.
Poi l'uomo sul letto passò dal sonno alla morte, e lo capirono da un flebile "Eeeh" che gli era scappato al momento del decesso. I quattro uomini rifecero il letto e poi uscirono a mangiare qualcosa. Sulla via verso il ristorante uno dei quattro, sicuramente per lo stress, ebbe un leggero malore, e dovette ordinare due antipasti.

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16 luglio 2010

Questioni irrisolte nel calcio dilettantistico marchigiano

Il magazziniere della Vigor Senigallia quella mattina si svegliò, come d'altronde si svegliava tutte le mattina, e andò allo stadio, e anche questo lo faceva ogni mattina, tranne quando non c'era allenamento né partite; andò allo stadio, e trovò l'erba sconvolta e le zolle rivoltate. In mezzo al prato, vide un piccolo trattore arancione che trascinava un erpice azzurro pallido; il magazziniere capì subito quel che stava succedendo. L'uomo sul trattore si chiamava Quinto Pacenti e aveva una ventina d'ettari di terra tra Sant'Angelo e Montemarciano, ma questo il magazziniere non lo sapeva.
-Avete seminato?
-Ho seminato. Non c'era molta terra, è bastata una passata.
-Questo è lo stadio della Vigor Senigallia.
-Ho piantato l'erba medica.
-Questo è lo stadio della Vigor Senigallia.
-Ma un bel campo piano, lasciato a prato basso, io dico, non vale la pena. Non ce ne sono molti di campi così piani e regolari, da noi.
-Ma non è un campo. È lo stadio comunale di Senigallia, ci gioca la Vigor.
-Eh, ma io ho le bestie.
Tra i tanti problemi che affliggono il calcio moderno, nelle Marche uno dei più gravi e sentiti è sicuramente la possibilità che qualcuno venga a piantare l'erba medica nei campi sportivi. A volte, ad essere onesti, anche i girasoli. I vertici della Belvederese, ad esempio, vivono nel terrore che un giorno il loro bel campo sportivo sia occupato dai contadini delle colline intorno. Già una volta hanno provato ad introdurre un maiale nello stanzino dell'arbitro, perché secondo gli allevatori del luogo era uno stipo perfetto, e c'è voluto del bello e del buono per convincere il signor Pambianchi di Pesaro a non dare partita vinta alla Real Metauro. Quando poi si perde una partita, ogni volta si presentano ai cancelli del campo due o tre contadini, e hanno già i sacchi di sementi in mano: domandano se adesso che la squadra ha perso il campo le serve ancora, o se invece possono entrare e dissodare.
Ma non si può andare avanti così. Non si può continuare a vedere in tribuna, ogni volta che c'è una partita, un numero più o meno elevato di spettatori e poi, a parte, riuniti in un punto favorevole, un gruppetto di anziani col cappello che discutono della resa eventuale del terreno; non è possibile che nonni e zii mandino i nipoti nelle giovanili soltanto per farsi recapitare un pugno di terra, e vedere se è argillosa o se invece ci si può cavare qualcosa di buono.
Il presidente del San Marcello, in piedi nell'area di rigore deserta dopo un allenamento, pensa che se ne andrà quanto prima in Ancona, a protestare contro i fastidi arrecati dagli agricoltori davanti ai vertici dello sport regionale; poi alza lo sguardo, e su una piaggia poco distante vede Loris Piersantelli, che ha una vanga in spalla e lo sguardo fisso sul prato del campo sportivo. Così il presidente finisce per impaurirsi, e decide che neanche oggi lascerà incustodito il prato.

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05 luglio 2010

Corsi e ricorsi

(Poi la finisco, giuro che poi la smetto con questi tristi amarcord d'una esistenza banale.) Correva l'anno 1994, o mille994 se preferite, e io ero un ragazzino alle soglie della secondaria superiore che guardava il mondiale di calcio statunitense su una poltrona o, a volte, su un cavallo a dondolo sloveno. Non per infantilismo malato, ma perché era comodo e molto meno caldo. Intorno, ad ogni modo, intorno c'era la notte estiva di paese, all'epoca insospettabilmente vivace; ma essa restava ancora ignota alla mia esperienza e percezione, e questo racconto non parla della notte.
I mondiali di quell'anno, i primi che ho analizzato criticamente o, se preferite, i primi in cui non mi sono limitato a tifare Italia, videro tra le protagoniste più fulgide la Romania di un mio idolo d'infanzia, Gheorghe Hagi. Di quella squadra (Stelea, Selymes, Petrescu; Munteanu, Lupescu, Belodedici; Panduru, Popescu, Raducioiu, Hagi, Dumitrescu, se non sbaglio) accompagnai nella notte, e a quell'età è già emozionante essere svegli e attivi a quell'ora, la cavalcata in avanti, abbellita anche da gol meravigliosi - Hagi alla Colombia - e vittorie importanti - quella contro l'Argentina. Poi, ai quarti, i rumeni trovarono la Svezia e diedero vita ad una partita in cui la loro maggior classe pareva frenata dal timore di vincere; io li guardavo e li tifavo con convinzione, fino a restare gelato - mancavano una decina di minuti alla fine - quando la noiosa Svezia passò in vantaggio su uno schema meccanico perfettamente eseguito. Ci rimasi male e mi aggrappai forte alle manopole, sperando che come me caricassero a testa bassa tutti i rumeni, fino ad allora vuoti e imbolsiti; e lo fecero davvero, forse per merito mio o per pura teoria del caos, tanto che pareggiarono a due minuti dalla fine, poi nei supplementari passarono in vantaggio e parvero gestire la partita, finché un'uscita indecorosa del secondo portiere non regalò alla Svezia il pari che, ovviamente, divenne una vittoria ai rigori. Io piansi e protestai; ma la conclusione della partita rimase brutta, ingiusta e imperturbabile.
L'altro giorno, anzi l'altra notte, ché era passata l'ora di cena, guardavo un altro quarto, Uruguay contro Ghana, e di nuovo tifavo convintamente una delle due squadre. Stavolta, per stima verso qualche giocatore, per la maglia, la storia, per tante cose, avevo scelto l'Uruguay (l'Uruguay, per me, è Francescoli e Aguilera: e come si fa a non amarli?). Di nuovo l'intreccio della partita poneva in grave difficoltà la mia squadra, sorpresa da un avversario mediocre, forse anche impaurita, di certo punita da un gol casuale. Come sedici anni prima, tuttavia, ho assistito ad una reazione, un pareggio, il dominio dei "miei", capaci di creare e sciupare palle gol gigantesche; e come sedici anni prima, come spesso nel calcio, meritare ed essere migliori sembrava non valere nulla, perché, per una serie difficilmente ripetibile di avvenimenti, gli africani ricevevano un rigore all'ultimo minuto dei supplementari. Com'è noto, però, l'hanno sbagliato; e stavolta i rigori hanno spinto avanti i migliori, e soprattutto i miei.
Mentre uscivo di casa dopo la partita mi è tornata alla mente l'altra sfida, quella di sedici anni fa, mi sono tornate alla mente le mie notti rumene frustrate, quel pianto e quella disperazione. Allora però ero un ragazzetto piccolo e vuoto, e avevo tutto davanti; la scuola, la vita, la speranza, tutto quello che ti fa dimenticare le lacrime e le sconfitte. Ogni tanto, parlando di calcio, ho nominato quella Romania sfortunata; ma era solo il vago lontano rimpianto di un ragazzo sereno.
Viceversa, oggi, non vedo nulla davanti a me. Nulla in cui sperare, perlomeno; nulla in cui sperare con un minimo di ragionevolezza, solo frammenti di passati inseguiti e mai raggiunti, o toccati appena e divenuti futuri sghembi e inabitabili. Eppure quel rigore sbagliato, quella partita vinta, mi hanno tirato su di morale: forse, ho pensato, è un segno di qualcosa. O forse basta poco per rendermi felice.

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