29 aprile 2009

Uomo accusato di filatelia

-Commissario, io mi proclamo innocente.
-Del tutto innocente, commissario.
-No, non nego nulla; devo forse negare la mia passione? Io vivo per essa, come potrei negare la mia stessa vita? Nego però che vi sia un reato, nego di aver commesso qualcosa di sbagliato.
-Può una passione essere reato, commissario? Io lo faccio perché mi piace, o forse perché ne ho bisogno.
-Non li considero solamente oggetti, commissario, tutt'altro. Proprio per questo, perché per me sono molto più che oggetti, posso dire di amarli.
-L'amore è tante cose, commissario. L'amore agisce in tanti modi. Credo tuttavia che si tratti di un discorso troppo complesso per questa sede, e comunque fuori luogo.
-Non li lecco, commissario, li guardo soltanto. Li raccolgo e li guardo.
-Le giuro che non lecco nulla, commissario.
-Se mi tocco mentre li guardo? Un po' mi tocco, commissario, a volte mi tocco. Può capitare che mi gratti la testa perché ho delle perplessità, ad esempio, oppure che mi accarezzi una parte del corpo che mi duole o ne massaggi una stanca.
-Ebbene sì, mi tocco, commissario, come vuole lei.
-Quanti ne ho raccolti? Tanti, tanti, tanti. Non li conto più. Eppure per me ognuno è unico, glielo assicuro.
-Si trovano, commissario. Si trova tutto, quando lo si vuole davvero.
-Ci sono dei circoli, dei gruppi, ci sono persone che si riuniscono e si aiutano in nome di una comune passione. A me pare molto bello, anzi.
-Mi scusi, commissario, ma io la vedo in questa maniera.
-Quando ne trovo di nuovi li guardo con attenzione, sfiorandoli appena per non rovinarli, e resto delle ore così, rigirandoli con delicatezza e osservandone ogni dettaglio. Poi quando non ne ho più voglia, o ho altro da fare, li metto via.
-Sì, quelli sono i miei raccoglitori, certo che li riconosco.
-Lo capisco benissimo e accetto la mia sorte, commissario. Ma non rinnego nulla.
-Ho dedicato la mia vita a ciò che soltanto mi dà piacere, commissario, per questo non posso e non voglio rinnegare nulla.
-L'amore non ha limiti, commissario, l'amore non ha altra etica che quella del piacere.
-Lei fa il suo lavoro. La capisco benissimo, non le rimprovero nulla.
-Neanche a me stesso, commissario. Neanche a me stesso.

Il filatelico fu impiccato all'alba, il suo cadavere gettato in una fossa comune. I numerosi raccoglitori sequestrati vennero distrutti, per non alimentare la curiosità morbosa del pubblico.

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23 aprile 2009

Estetica del cane da caccia costretto in città

Ah, che gioia, vedere udire lucertole guizzare rapidissime nei prati condominiali, gettarsi vili nei loro buchi profondissimi, strettissimi, a misura di lucertola
nessun naso di cane - attributi del naso di cane: nero, bagnato - entrerà mai in quei buchi
pure proveremo per l'eternità, o non saremmo cani
per l'eternità il muso mugghierà nel buco
all'altra estremità del cane la coda segnerà il tempo: qui, là, qui, là, qui, là, qui, là, qui, là, qui, là
qui

per l'eternità in attesa che escano dal buco
vili, le lucertole

bello, il sole
il sole è giallo e richiama alla vita le lucertole
il sole è rosso e asciuga la pioggia
al cane non piace la pioggia
al cane piace il sole

dove il sole non arriva restano le pozzanghere
dove il sole non arriva la terra è scura e pesante
- attributi della terra scura e pesante: faticosa, divertente -
il cane balza e zompa di pozza in pozza, di guazza in guazza
il cane puzza
puzza di cane felice

che gioia anche vedere un gatto
adorabile, desiderabile gatto - attributi del gatto desiderabile: inerme, vicino -
che noia invece il gatto, animale detestabilissimo
- attributi del gatto detestabile: lontano, al sicuro -
ho in uggia i gatti
il gatto ghigna
cattivo gatto

il gatto è cattivo perché sta zitto
e non mi piace
i bambini sono cattivi perché strillano e strillano
e non mi piace
il cane apprezza la misura
il cane è contro gli eccessi

il cane è eccessivo
eccessivamente vivo
corre
corre
corre
perché il prato ha tante buche, e ogni buca è una lucertola o un topo o un ghiro o un coniglio o un gatto o mille altre cose buone da mangiare
o più probabilmente nel buco non c'è nulla
ma secondo il cane sì
il cane ci crede sempre
allora corre

poi è stanco e dorme
il cane dorme sulla poltrona ed è tutto tondo
cane tondo
in strada passano i camion
cane tondo non sente i camion
cane dorme un sonno tondo.

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15 aprile 2009

Adriatisches Küstenland

Era un maggio così allegro e luminoso, sull'Adriatico, che neanche gli albergatori riuscivano a fingere la loro usuale faccia corrucciata e a dichiararsi preoccupati del calo degli arrivi o di qualche altra contingenza: in effetti, c'era ben poco di cui lamentarsi, perché i campeggi erano pieni e le pensioni straboccavano, e anche gli agriturismi e gli alberghi dell'interno non avevano un solo posto libero.
Quel che maggiormente stupiva era che la quasi totalità di questa anomala ondata di entusiasmo era dovuta ad un ritorno in massa dei tedeschi, dopo decenni in cui la principale occupazione degli albergatori e dei ristoratori era stata quella di estorcer loro denaro per servizi discutibili, mentre da parte loro i bagnini e i semplici aborigeni non cessavano di molestare le figlie e le mogli dei turisti teutonici ciondolanti in sandali per la riviera o addormentati e arrossati sotto gli ombrelloni. L'assemblea degli operatori del settore volle vedere in questa invasione un riconoscimento della propria grande e tradizionale ospitalità e dell'elevato livello dei servizi offerti; poi tutti si misero a ridere e tornarono a discutere seriamente.
Ad ogni modo, qualunque fosse la ragione di ciò, tutti gli indigeni che ne avevano qualche tornaconto si fregavano le mani vedendo le proprie città ripiene di teste bionde, come krapfen all'albicocca; la maggiorparte della popolazione era invece sostanzialmente neutra e non aveva opinioni al proposito. Solo qualche vecchio rimbambito scuoteva il capo e alzava il bastone, mormorando assurdità cui nessuno faceva caso.
Una mattina tutto cambiò. Numerosi ufficiali dell'Esercito Italiano e delle varie forze dell'ordine responsabili delle piazze adriatiche si svegliarono in qualche stanza d'albergo, legati ed imbavagliati, e si rammaricarono troppo tardi di non saper distinguere una sedicente sciampista di Hannover da una sottotenente della Bundeswehr; in perfetto coordinamento d'azione, da ogni campeggio della costa sciamarono truppe speciali equipaggiate di tutto punto, con anfibi d'ordinanza al posto dei soliti Birkenstock; un'enorme tenda, che aveva suscitato l'ammirazione dei locali quando era stata montata, risultò celare addirittura un Leopard di ultima generazione che, mentre ancora albeggiava, prese possesso del municipio di Caorle. Grado e Lignano caddero nelle prime ore della mattinata, Portogruaro le seguì di poco, mentre più a sud Senigallia e Fano - placide e indifese - non furono in grado di opporre alcuna resistenza e issarono ben presto il tricolore di Francoforte. Le caserme di Rimini erano in mano alle finte turiste già dalla notte, mentre una comitiva di anziani norimberghesi scesi da un charter con dei buffi cappelli prese possesso con fredda efficienza dell'aeroporto cittadino; l'enorme e orribile grattacielo della stazione venne demolito da un attacco aereo e smise per sempre di costituire un pericolo per l'avanzata tedesca e per l'armonia del paesaggio urbano. Quando spuntarono dei pezzi di artiglieria dal castello di Miramare e dalle alture circostanti, anche Trieste si arrese e tornò così alla sua funzione storica di baluardo germanico sull'Adriatico Orientale.
Alle tre del pomeriggio di quel sabato di maggio solo Ancona e Venezia si mantenevano fedeli al governo italiano, oltre ovviamente a Ferrara, Rovigo e Ravenna, la cui intangibilità era garantita dal clima malsano e dalle paludi che già avevano protetto gli ultimi ridotti bizantini dalla conquista longobarda, molti secoli prima. Pesaro aveva innalzato bandiera bianca dopo brevi scaramucce tra i capannoni della zona industriale; le truppe tedesche, certi indossando ancora le simpatiche t-shirt comperate nei giorni precedenti per non destare sospetti negli italiani, entrarono in città dalla pregevole pista ciclabile che corre verso Fano.
Venezia, senza più difese proprie, senza più navi, senza più un arsenale, volle comunque provare a organizzare una resistenza, ma fu piegata dalla barbara minaccia degli invasori, pronti - così dissero essi stessi - a piantare picchetti da tenda nei marmi e negli stucchi dei palazzi veneti. La capitolazione fu dunque inevitabile.
Intanto, la Repubblica Italiana sollevò con procedura d'urgenza la questione di fronte al Consiglio di Sicurezza dell'ONU; l'ambasciatore russo, sul cui sostegno si confidava grandemente, affermò tuttavia di non vedere niente di censurabile nella condotta della Repubblica Federale di Germania, poi chiese all'ambasciatrice dell'Eritrea se le andava di fare un giro sulla sua nuova Porsche e si allontanò fischiettando dal Palazzo di Vetro. Nel frattempo l'ambasciatore degli Stati Uniti cercava N'djamena su una cartina delle Marche da colorare, perché gli sembrava giusto documentarsi sulla questione dibattuta.
Mentre falliva ogni sforzo diplomatico, la situazione per il governo italiano si aggravava anche dal punto di vista militare. Pullman di pensionati amburghesi terrorizzavano ogni angolo della pianura friulana e stringevano sempre più l'assedio a Udine; per la prima volta dalla sua troppo tardiva costruzione, Palmanova si trovò a verificare la bontà della sua pianta stellata, certificata da numerosi assalti falliti; soltanto l'impiego dell'aviazione, che non poteva essere d'altronde previsto da nessun ingegnere militare della Serenissima Signoria, poté piegare quella munitissima fortezza. Investito il Friuli, la poderosa macchina militare germanica mosse verso il trevigiano alla conquista di vigne da utilizzare per il triste e infame compito di servire le fabbriche di Prosecco in lattina. Le ronde cittadine di Conegliano si fecero coraggiosamente incontro ai Teutoni avanzanti, ma dodici camicie verdi non sopravvissero al tentativo di guardare nella canna dei propri fucili per vedere se erano carichi, mentre gli altri furono rotti in fuga dalla soverchiante macchina bellica nemica. Un monumento nella pineta di Follonica ricorda tuttora il maldestro sacrificio dei dodici eroi, ed è in produzione una fiction sulle loro gesta.
Ancona restava invece protetta dalla sua natura capricciosa, da quei saliscendi continui, che estenuavano i piedi dei tedeschi e i loro calzini bianchi, e dall'angustia delle vie d'accesso alla città. Passarono così diversi giorni, con gli anconetani che resistevano coraggiosamente alla potenza germanica, come già fecero dinanzi alla protervia del Barbarossa, e attendevano - come allora - soccorsi dalla fiera e bellicosa Romagna. Ma la Romagna era domata, e le piadine giacevano a terra insanguinate. Quando poi giunse notizia che le case coloniche dell'entroterra ristrutturate da tedeschi e gli agriturismi che ne ospitavano in gran numero si erano trasformati in altrettanti fortini e casematte, gli anconetani uscirono a negoziare la resa, ottenendo in cambio lo status di capitale del neo costituito Land che riebbe l'antico nome di Marken. Esso fu completato nei giorni seguenti, quando le truppe che avevano attaccato Ancona furono disponibili per l'assalto all'orgogliosa Ascoli: come altre volte nella sua storia più lunga di quella di Roma, il capoluogo piceno si preparò a sostenere un assedio, e un nugolo di olive fritte volò dai bastioni ad accogliere il nemico, come ventuno secoli prima volavano le ghiande di piombo contro i Latini oppressori d'Italia. Il valore dei Piceni, tuttavia, non poteva bastare, e ben presto il confine federale raggiunse de facto le rive del Tronto. Da Pescara giunse allora l'avviso che i tedeschi non avrebbero potuto prendere la città, perché "Nu semm li chiù frign" e non è notoriamente possibile ad alcun umano battere i pescaresi. Il comando della Bundeswehr prese atto del comunicato, precisò comunque di non avere interesse a ulteriori allargamenti territoriali, si tolse gli stivali e tornò - stavolta da padroni, e guai a chi infastidisce le nostre figlie - a sdraiarsi sulle spiagge appena pacificate.
Il territorio conquistato fu diviso nei tre Länder di Freie Adriastadt Triest, Friaul und Venedig e le già citate Marken (cui furono aggregati la provincia di Rimini e il cesenate, facendo finalmente contenti quei traditori della Valmarecchia).
Lo Stato italiano non fu assolutamente in grado di reagire e dovette accettare la mutilazione territoriale, mentre le popolazioni occupate si dovettero rassegnare al dominio tedesco. Ancora oggi la costa adriatica, ben governata ed amministrata, in pieno decollo economico e caratterizzata da una civiltà nei rapporti umani e da un rispetto della cosa pubblica mai registrati prima, langue e geme sotto il tallone straniero.

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10 aprile 2009

Le anime mólle

La morte, parlandone in generale, è un evento fastidioso. Essa presenta tuttavia l'innegabile vantaggio che poi, una volta morti, è fatta: un istante dopo il proprio decesso (utilizziamo la parola "istante" in mancanza di termini più precisi, perché non di un lasso di tempo, per quanto ridotto, si tratta) l'anima è libera di presentarsi all'Onnipotente e di godere della sua luce, oppure di farsi suppliziare da demoni specializzati e assolutamente professionali, o anche di morire e basta, sparire, perdersi nell'atmosfera, annullarsi di persona in attesa che l'implosione dell'universo annulli tutto il creato. Questo, ovviamente, a seconda delle convinzioni di ognuno e del poter vantare o meno lettere di referenze da parte di prelati cattolici.
La morte in mare rappresenta un'eccezione a questa regola. L'anima dei morti, impregnata d'acqua, fatica ad uscire alla superficie e a raggiungere il suo destino: si rende bene l'idea affermando che l'anima del deceduto boccheggia, nuota con difficoltà e solo con grandi sforzi riesce a raggiungere il cielo; qui, di norma, si ferma un attimo ad asciugare, a riposarsi e a guardare per l'ultima volta - con l'assoluta indifferenza che è tipica di chi ormai non ha preoccupazioni di sorta - il luogo della propria vita e della propria morte. Quando poi c'è mare grosso, e specialmente se i corpi sono imprigionati in navi che affondano, chiusi dentro porte malauguratamente stagne e pressati da masse d'acqua ignare di ogni misericordia, l'anima ha un bell'affannarsi nella fuga: non c'è nulla da fare, anch'essa è condannata a scendere verso gli abissi con il proprio e gli altrui cadaveri. A quelle profondità, la risalita diviene definitivamente impossibile. Nei giorni e nei mesi che seguono, l'anima si aggira, agitata, dentro e intorno al relitto; prova a nuotare verso l'alto, ma desiste presto; perde infine ogni speranza e si limita ad avvicinarsi sempre più al proprio corpo in disfacimento, nuotandogli intorno in strette volute, oppure vegliandolo seduta su un cannone o su un pezzo superstite del parapetto.
Col tempo, tuttavia, le cose cambiano, e anche le anime dimenticano tante cose. Se si potesse visitare ad esempio quel che resta della Szent Istvan (o un'altra delle tante navi che riposano nel ventre dell'Adriatico stretto e tormentato) si troverebbe che le anime dei marinai non si aggirano più, gelose, intorno ai corpi che le ospitavano, corpi di cui, peraltro, sono rimasti solo gli scheletri, senza che resti di norma alcuna traccia delle eleganti divise della Marina Imperial-regia; adesso le anime vagano solitarie per le lamiere arrossite, oppure nuotano tutte assieme, diafane, come un banco di meduse. Non si spingono più verso la superficie e non cercano di reclamare il proprio corpo; si limitano ad attendere un giorno a venire, quando ogni anima sarà tratta dagli abissi più profondi e riunita ai rispettivi scheletri bianchi. A questi ultimi verrà allora restituita la carne, adesso usurpata dalla fame dei pesci, cui d'altronde risulta al momento più utile.

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01 aprile 2009

Cosa fa la gente durante le grandi piogge

Anche quella sera pioveva, come pioveva ormai da milioni di anni. Di nuovo gli toccava stare in casa; di nuovo niente aperitivo con gli amici ai tavolini davanti al baretto, di nuovo niente gita fuori porta, di nuovo osservare l'acqua che scendeva inarrestabile e monotona, e null'altro da fare. Sì, dicano pure che l'acqua è necessaria alla vita, parlino del periodo delle grandi piogge come di quello che getterà le basi per la fioritura a venire di tutti gli organismi viventi: è tutto vero, chi può negarlo?, ma intanto lui è ancora costretto a rincasare umido e di pessimo umore e a passare la serata incollato alle finestre che piangono a rivoli e a torrenti.
Accese la tv e guardò distrattamente le previsioni del tempo: ovviamente promettevano nient'altro che pioggia, pioggia su Modena, la sua città (che all'epoca nessuno chiamava ancora così), pioggia sull'Italia (anch'essa all'epoca priva di nome), pioggia sul mondo. Gli esperti annunciarono che c'era in ogni caso speranza che le cose migliorassero; era anzi inevitabile che arrivasse prima o poi un fine settimana assolato, che si potesse di nuovo osservare lo spettacolo della terra che si asciuga, che di nuovo tornassero a svolgersi i campionati interrotti ormai da tempo immemorabile. Prima o poi, dicevano gli scienziati con l'aria di chi sa con certezza il cosa, anche se ignora il quando, prima o poi gli oceani si sarebbero colmati, prima o poi la terra ribollente di lava si sarebbe totalmente raffreddata.
La tv disse che restava una macchia surriscaldata e inospitale alla vita dalle parti di Vercelli. Si era comunque fiduciosi che si trattasse di una questione di giorni, o di milioni di anni, perché anche quella macchia si riducesse alla ragione e il pianeta fosse dichiarato infine asciutto e vivibile. L'uomo volle fidarsi, non avendo di meglio da fare; aprì uno sportello e ne cavò fuori un paio di scarpe assolutamente nuovissime, poi chiamò i suoi amici per vedere chi era disponibile ad una partitella di calcio, magari per la settimana successiva.

(ho scritto anche questo, che prima o poi ripubblicherò anche qui, se non per altro per divertirmi a incasinare le chiavi di ricerca)

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