30 luglio 2007

Come difendersi dai coccodrilli

Quando non si vive più bene a causa del timore di un attacco di coccodrilli, quando ci si sveglia sconvolti nel cuore della notte dopo aver sognato la vostra madrina di battesimo trasformarsi in un voracissimo caimano, quando il primo pensiero di ogni giorno è volto agli alligatori del Nilo e al loro ghigno demoniaco, allora la prima cosa da fare è svuotare il proprio conto in banca e acquistare un appartamento in uno stabile all’avanguardia. Ma all’avanguardia vera: l’edificio cui ci riferiamo è privo di scale, tanto per chiarire, oppure le ha viscide e dirute e impraticabili per qualsiasi genere di sauro. L’assenza di una rampa di scale, in estrema e spietata sintesi, è anche per il coccodrillo più feroce e motivato un ostacolo pressoché insuperabile. In effetti, la struttura fisica del rettile fa sì che questi, per chiamare un ascensore, sia costretto a ricorrere alla cosiddetta piramide di coccodrilli: cinque coccodrilli formano la base, quattro il secondo livello, poi tre e due coccodrilli costituiscono gli strati successivi; e solo il rettile solitario del quinto piano si trova finalmente in condizione di schiacciare il pulsante del montacarichi. Se ne deduce che occorrono quindici coccodrilli per prendere un ascensore; e un assembramento di quindici lucertoloni, siamo franchi, è tale da indurre al sospetto e alla delazione il più discreto dei vicini di casa o il più ignaro e casuale dei passanti ignari e casuali. Ovviamente, quanto detto non vale per gli alberghi e i loro lift, dov’è il ragazzo in uniforme ad aprire le porte ai clienti, siano essi squamati o no, e a condurli al piano desiderato; per questo motivo gli hotel, in particolare quelli di lusso, sono unanimemente considerati luoghi ad alto rischio di attacco coccodrillico. Non dimorate in albergo se temete una tale eventualità.
Se invece non si ha a disposizione il capitale necessario all’acquisto di una casa con le caratteristiche elencate sopra, si cominci ad esercitarsi col trombone. E’ noto infatti che i grandi rettili odiano più di ogni altra cosa il suono caldo e versatile di quello strumento a fiato, al punto da evitare sistematicamente di frequentare i dintorni dell’abitazione e perfino il quartiere che ospita dei trombonisti; taluni alligatori, richiesti della loro presenza, usano accampare pretesti per evitare di dover trascorrere del tempo in luoghi infestati dal suono del trombone; altri giungono ad indossare il bracciale azzurro, che presso i coccodrilli è il simbolo universale della ripugnanza e del fastidio, e scrivono lettere alle circoscrizioni e ai consiglieri comunali di minoranza per stigmatizzare la tolleranza di un tale, insopportabile e volgarissimo rumore. E’ chiaro a chiunque che ci riferiamo esclusivamente al trombone a coulisse: se pensate che un semplice trombone a pistoni possa inquietare un rettile del peso di svariati quintali, siete dei poveri illusi e non meritereste neanche queste premurose righe d’avviso.
Infine, qualora capiti di disputare una partita di calcetto contro un coccodrillo, un caimano o un alligatore del Mississippi, ci si ricordi di tenersi sempre sulla destra. L’intero ordine dei Crocodilia è ben conscio dei propri limiti tecnici ed è impossibilitato per natura ed indole a schierarsi fluidificante mancino; si lasci pure che sia il centravanti ad assaggiare la tenace marcatura e gli anticipi mordaci del bestione verde: si tratta di uno dei più rari ed affascinanti spettacoli della natura, questo della lotta mortale tra un attaccante di movimento ed un predatore preistorico, e la fascia laterale di un campetto d’erba sintetica è un luogo privilegiato per assistervi.

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26 luglio 2007

Avventure tecnologiche nella campagna marchigiana

Il signor Ferretti, di Morro d’Alba (AN), è un uomo molto socievole, di mente giovane e flessibile, nonché un estimatore della moderna tecnologia e dei suoi grandi vantaggi. Non stupisce che abbia compreso in poco tempo l’importanza di Internet e che lo utilizzi spesso e volentieri sia per lavoro –il signor Ferretti è solito servirsi di ebay per comprare erpici e autoradio per mietitrebbia- sia per piacere: proprio di recente ha fatto la conoscenza di un lituano nella chat di un sito dedicato all’allevamento dei conigli. Il signor Ferretti trova il baltico molto simpatico; questi, d’altra parte, ricambia in toto i sentimenti favorevoli del morrese. Così, il signor Ferretti un giorno chiede alla signora Ferretti, nata Corinaldesi, se può invitare il suo nuovo amico dei mari freddi a trascorrere un paio di settimane nelle Marche. La signora Ferretti, nata Corinaldesi, dice che non ci sono problemi: la casa è grande, c’è spazio per parcheggiare, non c’è neanche bisogno di far spesa, dacché ci sono gli animali e c’è l’orto. Al limite si pregheranno i parenti di Belvedere di portare qualcosa anche loro. Così il signor Ferretti va al suo computerino bianco, avvia un programma di comunicazione istantanea e comunica al suo amico lituano il suo proposito di ospitarlo per qualche tempo nei gradevoli dintorni di Morro d’Alba (AN), dove sorge l’ampia dimora dei Ferretti. Il lituano ringrazia e domanda se può venire anche la sua famiglia; il signor Ferretti sorride, si scusa per non esser stato chiaro, dice che ovviamente l’invito è rivolto a tutti i congiunti del baltico; questi apprezza, poi però aggiunge con rammarico di dover rifiutare la proposta, non potendo lasciare da soli gli anziani genitori della moglie; il signor Ferretti risponde che, se sono in grado di viaggiare, possono venire anche loro, ché saranno trattati col rispetto dovuto ai capelli bianchi; il lituano ringrazia di nuovo, poi, scusandosi per l’impudenza, chiede se gli è permesso allargare l’invito ad un paio di amici. Il signor Ferretti digita la faccina ☺; c’è posto per tutti quelli che vogliono venire, dice il signor Ferretti. Il lituano prende atto con piacere dell’altrui gentilezza e comincia i preparativi per il lungo viaggio verso la terra dove fioriscono i limoni (qualora vi vengano piantati; il che, siamo giusti, non accade di frequente).
Passano quattro giorni, e si presenta al passo imbrecciato di casa Ferretti una colonna di automezzi che sembra non avere fine; tutti hanno targa lituana. Da molti finestrini fuoriescono le teste bionde dei bambini. Il signor Ferretti è sul balcone di casa, intento a mangiare del cocomero; visto quel serpentone interminabile, scende ad accogliere i suoi ospiti. Dalla prima automobile scende il suo amico lituano con la sua famiglia; la moglie ha le trecce e una bambina al collo, i due figli maschi portano un gilè blu e i sandali di gomma. Il signor Ferretti, vagamente inquieto, domanda quante persone abbiano accolto il suo invito. Il lituano dice che, stando all’ultimo censimento, sono tre milioni quattrocentotrentaseimila cinquecentosessantuno persone; il signor Ferretti si dispiace, perché ha posto solo per otto: tre milioni quattrocentotrentaseimila cinquecentocinquantatré dovranno dormire sui prati. Poi, più che altro per curiosità, domanda come mai sono arrivati in tanti. Il lituano dice che la moglie, mentre piegava le lenzuola in terrazzo, ha parlato coi vicini, magnificando l’ospitalità marchigiana; i vicini hanno conversato coi loro vicini; i vicini dei vicini hanno chiamato i parenti di Klaipeda (“Memel?”, chiede il signor Ferretti, che è un convinto tedescofilo. “Sì, Memel”, risponde il baltico); i parenti di Klaipeda avevano dei creditori a Kaunas e, in attesa di avere i soldi per pagarli, è giusto tenerli buoni; a Kaunas l’estate c’è poco da fare, e i creditori non hanno avuto il cuore di lasciare i loro concittadini ad annoiarsi; e poi, come si dice?, la Lituania è piccola e la gente mormora in lituano, com’è come non è si sono aggregati tutti. Sono partiti alle sette e mezzo dalla piazza di Vilnius, sotto il fiero cipiglio bronzeo dell’eroe nazionale lituano, rimasto a vigilare sui viali abbandonati. Strada facendo hanno anche raccolto vari cestisti che si trovavano all’estero per lavoro e che stavano tornando a casa per le vacanze. Non potevano certo lasciarli da soli in Lituania; è tutto chiuso e deserto, e chi ha voglia di andare a far spesa in Russia? Però in compenso ognuno ha portato dei regali: chi un salame tipico, chi una grappa di lichene, chi una statua smaltata della Vergine del Baltico. Il signor Ferretti chiede quante macchine sono, ché non è sicuro di avere spazio per il parcheggio. Il lituano dice che si sono organizzati bene e hanno preso solo ottocentomila macchine. Il signor Ferretti dice che allora no. Il lituano si gira verso la fila, urla e sbraccia un po’: presto la voce si spande, le automobili cominciano ad inerpicarsi sui fianchi delle colline, scegliendo quelle spoglie per il grano battuto. I lituani sono gente corretta, checché ne dicano in Lettonia. Intanto il signor Ferretti organizza gruppi di diecimila lituani cui far visitare le bellezze della Provincia di Ancona; però i lituani hanno un po’ fame, l’ultima volta che hanno mangiato erano in Bielorussia, alcuni si toccano lo stomaco nel linguaggio universale di chi ha bisogno di cibo. Il signor Ferretti ne parla con la signora Ferretti, nata Corinaldesi, che sta tornando proprio ora da Morro d’Alba (AN): è andata a fare spesa, ha comprato la maionese e due etti di formaggio fresco. Il signor Ferretti le si avvicina e le chiede se in casa hanno un milione e mezzo di uova, perché gli sembrava carino offrire a tutti un piatto di tagliatelle. La signora Ferretti, nata Corinaldesi, ci pensa su e poi va a controllare le galline, ma oggi ne hanno fatte solo sette. La signora Ferretti, nata Corinaldesi, allora va di aia in aia, spiegando la situazione alle massaie, finché non le raduna tutte e le trascina in paese. Al centro della piazza, costruiscono una tavola di trenta metri per cinquanta, sulla quale vengono stese centinaia di uova per volta, a produrre chilometri di sfoglia. Immediatamente allertati dalla famiglia Ferretti, tutti i comuni della Provincia inviano convogli di generi alimentari di prima necessità, quali gnocchi con la papera, cappelletti in brodo, crespelle e pappardelle, ciauscolo, soppressati, ciarimboli, spuntature e costarelle. I lituani, accampati in cerchi concentrici intorno alle mura di Morro come i turchi all’assedio di Vienna, attendono pazientemente il proprio turno per mangiare. Però il signor Ferretti, che è un ospite coi fiocchi, pensa che quei poverini non possono certo murare a secco; bisogna trovare alla svelta qualche milione di litri di liquidi. Il signor Ferretti, che è rispettoso dell’autorità, fa presente il problema al sindaco di Morro d’Alba (AN). Questi si mette immediatamente in contatto con i vertici della protezione civile, i quali propongono di innaffiare i lituani con un Canadair. Il sindaco, degno rappresentante di una cittadinanza acuta ed attenta quale quella di Morro d’Alba (AN), espone il dubbio che l’immane massa d’acqua possa spezzare dei colli, oltre ad abbeverare delle bocche. A questo punto i vertici della protezione civile fingono di essere delle voci registrate e troncano la comunicazione. Eppure i lituani devono pur bere: il sindaco lo sa, e non si tira indietro neanche di fronte alla necessità di proporre soluzioni impopolari.
Adesso è notte. Al prezzo dell’intera annata 2005 di Lacrima di Morro d’Alba, i lituani sono stati sedati e ora dormono il sonno dei baltici, il tipico sonno di permafrost, popolato di sogni nevosi e cristallini. Il signor Ferretti pensa che domani vuole portarli al mare, da Porto Recanati (MC) a Marotta (PU).

Questo raccontino appoggia incondizionatamente il Lacrima di Morro d'Alba. Bevete Lacrima di Morro d'Alba.

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23 luglio 2007

La fine di un mondo

Quando l’umanità intera decise di giustiziarsi a cagione dei propri misfatti, colui che doveva togliersi la vita per ultimo, l’ultimo uomo sulla Terra, si tirò indietro e continuò a vivere, violando i patti. I morti, rassegnati e tolleranti come di solito sono i morti, rimasero in silenzio e non protestarono per il mancato rispetto degli impegni presi: quella estrema ed ostinata vita, del resto provvisoria, non toglieva nulla alla loro morte. Dunque essi attesero.
L’ultimo uomo sulla Terra voleva vivere in solitudine e in solitudine godere di tutto quanto era stato costruito ed escogitato, di tutto ciò che era grande e meraviglioso. Passeggiando per il centro deserto, comprese però ben presto che non sarebbe stato possibile. Non c’era nessuna solitudine; ovunque andasse, era pieno di morti. Non c’era solitudine, c’era solo abbandono. Il primo giorno della sua nuova vita volle coronarlo con un bel pranzo. Passò davanti ad un ristorante che aveva avuto un gran nome, quando c’era ancora qualcuno a ripeterlo; si sedette ad un tavolo e non venne nessuno a servirlo. I camerieri morti lo fissavano, fermi, invisibili, inappuntabili; i cuochi erano al loro posto dietro i fornelli, ma le porte della cucina rimasero chiuse. L’ultimo uomo sulla Terra lesse il menù, mangiò dei grissini, poi raccolse le briciole nel pugno ed uscì in strada. Qui aprì la mano e le lasciò cadere. Piluccò qualcosa a casa e non gli piacque molto. La sera, con la città spenta, scoprì che la notte era nera e profonda ed ebbe nostalgia dei morti.
La mattina successiva si sentiva meglio. Non gli venne neanche in mente di andare a far colazione al bar. Decise di recarsi in biblioteca, dove poteva finalmente pensare a qualcosa che non fossero i morti che non aveva avuto il coraggio di seguire. Lesse molto, disordinatamente, ostacolato dall’ordine poco chiaro e dalle porte chiuse che celavano chissà quali tesori di conoscenza; la città era piena di porte chiuse, in quei giorni, e le chiavi corrispondenti erano strette nei pugni dei morti. Solo pochi non si erano fatti problemi a lasciare la casa aperta in un mondo vuoto; ma i più, forse timorosi che il vuoto entrasse a riempire le loro dimore approfittando di un’assenza così lunga dei padroni di casa, avevano serrato porte e finestre. L’ultimo uomo sulla Terra ruppe varie finestre, per permettere a cani e gatti dimenticati di uscire dalle case dei loro padroni morti; ma non entrò mai nelle case degli altri. Pensò varie volte che con tutto quel tempo davanti a sé, un giorno avrebbe di certo forzato l’ingresso delle abitazioni più vaste e più belle; ma non lo fece. Le piscine dei quartieri ricchi diventarono luride e stagnanti senza che lui vi infilasse mai un piede.
Dopo aver letto così tanto, senza nessuno cui potesse raccontare quello che aveva imparato, senza nessuno che potesse chiarirgli il significato di tante parole, l’ultimo uomo sulla Terra capì che la sua unica frontiera di conoscenza era lo spazio. Si avviò alla stazione, persuaso a seguire i binari fino alla città successiva. La stazione era ingombra di treni fermi come mummie, ma per nulla silenziosi. Il metallo delle carrozze scricchiolava e gemeva per l’abbandono dell’uomo; in compenso, piccoli animali grattavano le loro unghie sul pavimento dei vagoni che avevano trasformato in tane. L’ultimo uomo sulla Terra si avviò a piedi per la strada ferrata. Gli sembrava di aver camminato moltissimo, quando infine intravide un’altra stazione in lontananza. Credette di essere giunto nella città successiva, ma si trattava solo della piccola e spoglia pensilina di un quartiere di periferia, dove fermavano solo i treni dell’alba e del tramonto, pieni di fantasmi che andavano o tornavano dal lavoro. Ora quei fantasmi erano morti, e tutto era silenzioso. Cominciò a piovere. Inquieto, l’ultimo uomo sulla Terra si infilò in un cinema, rimasto misteriosamente aperto. La sala aveva un odore neutro e fortissimo. Si sistemò in un posto ottimo, ma nessuno fece partire la pellicola. I morti seduti vicino a lui seguivano con interesse il film che non iniziava. Rimase lì qualche ora, e quando uscì aveva i capelli bianchi. Non pioveva più. Tornò a casa.
L’ultimo uomo sulla Terra visse ancora lungo tempo, da solo in mezzo a tutti quei morti che continuavano la loro attività. Uscì sempre meno di casa, mangiò biscotti e lesse libri di poca o nessuna acutezza, libri che aveva trovato nella vetrina di una libreria. Egli vegetava ed era tranquillo, non fu mai più inquieto come quella sera piovosa trascorsa al cinema. Accettò il silenzio e il buio e visse nella città in cui era sempre vissuto.
Intanto il mondo moriva, cioè rinasceva: ogni giorno il verde spuntava dal grigio, ogni notte il nero avvolgeva il grigio. I morti, pur operosi, non riuscivano a restituire al grigio la sua passata importanza. Il paesaggio cambiava sotto gli occhi dell’ultima persona viva.
L’ultimo uomo sulla Terra mangiava biscotti, camminava e leggeva. Un giorno si avvide di star male. Rapidamente e senza rimpianti, si lasciò portar via da una malattia che non sapeva curare. I morti l’aspettavano, pazienti e fiduciosi che sarebbe arrivato. Infine, l’umanità fu riunita.
Intanto il mondo moriva, cioè rinasceva.

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19 luglio 2007

Sapere enciclopedico

Oggi mi guardavo le unghie dei piedi, prima di mangiarle, e riflettevo sull'assoluta necessità di mettere la mia indiscutibile e proteiforme cultura al servizio di tutti gli utenti della grande rete. Con oggi si apre dunque un capitolo nuovo e finalmente utile in questo stucchevole e irritante blog: Wikitamas, ovvero io vi imparo il mondo. Via.

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Belgio.
Caratteristiche generali ed istituzioni.
Il Belgio è un posto di merda (forma di governo: monarchia costituzionale) posto in Europa Nordoccidentale e confinante con Paesi Bassi, Germania, Lussemburgo e Francia. Caratteristica precipua e peculiare del Belgio è il suo cielo, che è grigio e sta a tre metri da terra. Ne deriva che quando si vuole costruire un qualsiasi edificio, si deve andare lì con protervia e tagliare via cubi di cielo con la motosega finché non si è raggiunta la metratura desiderata. Il cielo di scarto viene poi ammonticchiato in appositi luoghi di stoccaggio alla periferia dei centri urbani. Quindi Magritte era indubitabilmente un pittore che faceva della precisa descrizione della realtà un punto d’onore (vedi figura 1), ma come al solito la critica non capisce un cazzo.
A causa della complessa coesistenza tra le due maggiori componenti linguistiche, quella d’espressione fiamminga e quella francofona, risulta essere molto composita ed interessante l’organizzazione istituzionale ed amministrativa del paese ma non frega un cazzo a nessuno.

Figura 1: un tipico paesaggio belga, dalle parti di Namur.

Demografia.
Sorprendentemente, il Belgio è abitato.

Gastronomia.
Ma non prendiamoci in giro.

Sport.
Lo sport nazionale belga è l’onanismo di massa, effettuato generalmente in appositi edifici denominati in francese places-aux-manipulations e in fiammingo wimkieft. Il re in persona stringe la mano al vincitore della grande sei giorni che tradizionalmente si tiene a settembre ad Anversa. Però porta i guanti.
Da seguire anche il campionato di calcio, caratterizzato da una folta presenza di giocatori serbi, croati, congolesi, ivoriani, georgiani, ugandesi e d’altre meravigliose nazioni di tutto il mondo, i quali usano mettere la loro esperienza di guerre civili al servizio del fair play più oxfordiano e del grande spettacolo del calcio.

Economia.
Esistono numerose fabbriche, banche, imprese commerciali e quanto di più disparato, in questo paese di grande tradizione e capacità imprenditoriali; il tutto allo scopo di ammucchiare soldi per andare a vivere in Olanda.


Lingua greca.
Il greco antico, grazie alla sua flessibilità e versatilità, alla dovizia del suo vocabolario e agli ingegni eccelsi che lo hanno utilizzato e migliorato nel tempo, resta tuttora un modello forse insuperato di lingua ricca, chiara e precisa, la cui conoscenza è parte imprescindibile del bagaglio di ogni persona di cultura.
Il grichi modirni invici ì pripri ina lingui da frici.


Banana.
La banana è un frutto giallo e saporito, originario dell’Africa e coltivato in genere in posti da negri. Essa serve all’alimentazione umana e delle scimmie e si utilizza sbucciata, checché ne dica vs. madre.


Polonia.
No, no, polacco te.


Curva di Gauss.
La curva di Gauss (fig. 2) è una curva cieca, abbastanza pericolosa, sulla strada provinciale Arceviese all’altezza di Montale. Andrebbe affrontata a non più di 50 km all’ora. Prende il nome da Gino Gauss, che fino all’anno scorso abitava la casa colonica sul poggio; ora è morto, e la casa l’hanno comprata dei tedeschi.

Figura 2: la curva di Gauss presso Montale di Arcevia.

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A presto per nuove lezioni.

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Misure anti-evasione

Ecco che succede a non chiedere la fattura.

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18 luglio 2007

Un aperitivo d'affari

-Buonasera a tutti!
-Ciao.
-…
-…
-Dai, versami un frizzantino.
-Ce li hai i soldi?
-Adesso no. Però ho pensato di cedere la casa natale di Leopardi ai sudafricani, sai che quelli hanno un sacco di soldi per via dei diamanti e dei negri, e cercano un poeta nazionale perché senza poeta nazionale la popolazione s’intristisce e la pasta asciutta sembra sempre sciapa. Leopardi ci sta bene per via del nome, quelli giustamente sono africani e cercano qualcosa di tipico. Anzi, se i romagnoli sono d’accordo dopo vendo Pascoli ai Masai. Ad ogni modo, io faccio sventolare la bandiera della nazione arcobaleno sul colle di Recanati, guadagno un sacco di soldi e sono tutti soddisfatti. E tu ora mi versi un frizzantino.
-No.
-Dici che lo Stato Italiano tiene troppo alla cultura per rinunciare alle sue glorie nazionali? Obiettivamente hai ragione. Poco male, per fortuna ho un’idea migliore: stacco la Rotonda di Senigallia dalla terra ferma, piazzo dei cuscinetti d’aria compressa al di sotto della superficie e ne faccio il più grande tagadà dell’Adriatico. Verrà gente anche dai Grigioni e da Modena, per fare un giro sull’Artistico e Ineguagliabile Tagadà di Senigallia. Magari sfondiamo il soffitto, o lo rifacciamo di vetro e carbonio, così mentre vomiti vedi le stelle. O no? Sono tutti d’accordo, a me come ideatore della cosa arrivano entrate su entrate e mi intervista il TG2, e io dico che tu sei il mio barista preferito e ti faccio fare bella figura con l’opinione pubblica. Ma bisogna che mi versi prima un frizzantino.
-No.
-Beh, ti capisco, c’è un fattore di rischio troppo alto. Allora diciamo che vendo Chivu all’Acqualagna; faccio balenare al sindaco la possibilità di piazzare i tartufi sul ricco mercato transilvano, quello s’invoglia, tira fuori quei quindici milioni di euro e l’anno prossimo seguono l’Eccellenza marchigiana da Costanza a Timisoara. Te l’immagini che colpaccio di marketing, le magliette del Piano San Lazzaro nei negozi di Bucarest? Io ci prendo una commissione, chiedo poco, eh: quel milioncino per il futuro, e tu intanto mi versi un frizzantino.
-No.
-Perché tu credi che Chivu sia un po’ troppo fragile per l’Eccellenza marchigiana? Non hai tutti i torti, si sa che da noi si gioca di cuore e di pedate, quello è fino come un ago di pino, a Cingoli me lo rovinano. Però se affitto un aereo cargo, sposto uno o due castelli di Arcevia in Bassa Sassonia, diciamo verso Osnabrück, tanto chi se ne accorge? ce ne sono un’infinità e non ci abita nessuno, i tedeschi sono contenti di avere la campagna marchigiana sotto casa, pagano un biglietto per entrare e bere una weize scura sulle mura di Loretello, noi dividiamo i proventi e tu adesso mi versi un frizzantino.
-…
-…
-Spiegami bene i dettagli del trasferimento aereo.
-Tu riempi meglio quel bicchiere, ché con la bocca secca non si può mica parlare.

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14 luglio 2007

De tu querida presencia

Lo sguardo azzurro non si è perduto, anche se i tuoi occhi si sono chiusi. I neri bastioni della reazione, l’ultima cosa che hai visto, sono crollati. Anche grazie a te, Colonnello, che hai guidato le masse e ne hai diretto il tiro, hai difeso il più debole, hai corretto le ingiustizie e punito le sopraffazioni anche quando gli ipocriti e i disonesti volevano chiamare anch’esse rivoluzione. La strada è ancora lunga, compagna, ma quei bastioni sono crollati. Da te prenderemo esempio per abbattere le nuove Bastiglie, di te ricorderemo la tenera e inflessibile durezza, l’amore per i figli della patria, il coraggio di essere donna e combattente. Ora riposa tranquilla sulla collina verde, accanto al tuo adorato Andrè; il popolo sa che hai fatto il tuo dovere e ti rende omaggio. Dal poggio che ti ha accolto al mare blu dei tuoi occhi sventolano i drappi rossi, rossi come il sangue dei nostri eroi.
Onore alla compagna Lady Oscar, bionda avanguardia della rivoluzione popolare! Hasta siempre, comandante!

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11 luglio 2007

Diario virtuale

E poi c'è un momento nella vita di un uomo in cui acquista significato perfino Luciano Onder. Per quanto riguarda la mia umile persona, questo momento era ieri mattina, quando il medico mi ha diagnosticato una probabile prostatite. L'altro modo per darmi la notizia era narcotizzarmi e poi scrivere sullo specchio Benvenuto in TG2 salute. Ho comunque apprezzato che abbia scelto quello meno doloroso. Per cui nulla, ora mando giù di continuo fermenti lattici vivi, ignorando e deridendo le loro ultime disperate grida, e la sera vado a giocare a briscola e tresette coi miei colleghi anziani. Da qualche parte devo avere una coppola, non posso andare al circolo con le adidas.

(Visto? Non è vero che non parlo mai di me e delle mie vicende private. Anzi, dato che abbiamo iniziato vi rivelo anche un paio di altri fatti molto personali: mi piace la vaniglia e ho una voglia di Kazakistan sulla schiena. E per oggi basta così).

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08 luglio 2007

Adotta un cristiano d'Oriente

Stavo leggendo questo, quando mi sono reso conto che indignarsi non bastava più e che era infine giunto il momento di agire. Ogni volta che arriva l’estate, oppure ogni volta che gli Stati Uniti abbattono con pretesti futili un regime arabo laico, è la stessa storia: chi viene scaricato come un peso? Chi ci impedisce di goderci le vacanze? Chi subisce l’instaurazione di un clima di estremismo islamico e di intolleranza? Loro, sempre loro, ma nessuno lo vede davvero come un problema, perché si è sempre fatto così. Non ci pensiamo certo due volte a sacrificare i poveri cristiani d’Oriente, che pure ci sono fedeli da millenni (i primi cristiani a venir addomesticati, secondo studi recenti). Li guardiamo nello specchietto retrovisore aggirarsi confusi per la corsia d’emergenza della Bagdad-Bassora, coi loro profondi occhi neri che ci fissano senza capire. E ci si stringe il cuore; ciononostante chiudiamo lo sportello e ripartiamo, diretti verso i bagni nello Shatt el Arab e verso le piadine di cammello e squacquerone.
Ma non è più possibile perseverare su questa china, per una società che continua a definirsi civile. Così mi sono diretto al cristianile, un edificio di gusto sobrio, che alcuni volontari portano avanti con coraggio e tenacia alla periferia della città. Ho passeggiato un po’ negli spazi limitati ma puliti e dignitosi dello stabile, mentre gli ultimi discendenti di quelle che furono le prime comunità cristiane del mondo cercavano il mio viso con curiosità e forse speranza. Ho indugiato davanti a Louis-Michel, un maronita che ha perso una zampetta cercando di far saltare un campo profughi palestinese in Libano; ho ascoltato, commosso, gli assiri e i caldei che uggiolavano il Padre Nostro; ma sono stati gli occhi scuri di Ibrahim, un siriano a pelo lungo (e crespo), a conquistarmi. Da tre giorni ormai Ibrahim dorme sul mio divano, emettendo strane gutturali arabe quando cerco di spazzolarlo ed entusiasmandosi dinanzi a The Passion. E’ vero, un cristiano d’Oriente comporta una fatica e una responsabilità (anche se la loro dieta a base di formaggio e olive non pesa troppo sul bilancio familiare): ma se voi poteste vederlo mentre si accoccola felice sul grembo della mia donna, capireste. A volte, guardo Ibrahim negli occhi e mi convinco che in fondo a quelle cavità c’è un’anima. Destinata alla salvezza, oltretutto, visto che ogni mattina si sveglia alle cinque e un quarto e va a messa da solo.
Ci sono lui e il prete nell'edificio inutilmente vasto e assurdamente adorno; si guardano, si annusano e si sentono meno abbandonati.

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04 luglio 2007

Straordinaria amministrazione

Mentre ricercava alcune pratiche di una certa importanza che aveva riposto chissà dove, il sindaco di Piacenza si trovò tra le mani un barattolo di bolle di sapone. Istantaneamente dimentico del proprio dovere e della decenza municipale, andò in bagno e si mise a soffiarle davanti allo specchio, per poi seguirle salire con sguardo ammirato e perso. Ben presto si accorse però che il soffitto, invidioso, fermava le bolle e anzi le faceva scoppiare tutte. Dopo aver brevemente considerato il da farsi, l’uomo politico scese in cantina a prendere la cassetta degli attrezzi, una pala e un paio d’altri utensili.
I coniugi Pedrotti erano seduti fianco a fianco sul divano, quando dalle piastrelle divelte della sala emerse il capo rispettabile e coperto di polvere del primo cittadino di Piacenza. Questi salutò i suoi vicini ed amministrati e promise loro un abbonamento al teatro comunale; poi ridiscese e si rassettò gli abiti. I coniugi Pedrotti si guardarono attoniti. La loro meraviglia non diminuì di certo qualche minuto dopo, quando dal buco nel pavimento cominciarono a salire bolle di sapone, trasparenti e multicolori. All’interno del buco c’era il volto estasiato del sindaco, che continuava a soffiare con una certa maestria. Tuttavia, nonostante gli sforzi e la bravura dell’uomo, la vita delle bolle si manteneva breve ed effimera; quasi nessuna riuscì ad arrivare al soffitto di casa Pedrotti. La maggiorparte scoppiava a metà strada tra questo e il buco. Il sindaco prese pensosamente atto di ciò.
Il giorno successivo, al consiglio comunale, una mozione della maggioranza deplorava la mancata valorizzazione di una specificità territoriale come il gioco delle bolle e proponeva che Piacenza fosse la prima città d’Italia a costruire una stanza a misura di bolla, in cui cioè queste non scoppiassero, ma potessero continuare a librarsi leggere per l’aria. L’opposizione era in bagno e la proposta passò. Gli studi e poi la progettazione vera e propria dell’opera richiesero molto tempo; i migliori ingegni piacentini si applicarono con zelo alla questione; furono fatti giungere scienziati e ingegneri perfino da Alessandria e Pavia. Per un periodo collaborò al progetto anche un algerino, già addetto nel deserto libico alla costruzione delle tubature dell’acqua fossile, il quale per la verità non faceva che mangiare felafel e criticare ogni soluzione che veniva escogitata; finché non si stufò dell’incompetenza altrui e prese un treno per Milano, dove si impiegò nel settore spaccio al minuto.
Quando infine ogni cosa fu a posto, qualche mese e svariati milioni di euro dopo, i responsabili si recarono in municipio a dare la bella notizia; trovarono il sindaco sull’altalena, mentre l’assessore ai lavori pubblici lo spingeva e gli raccontava storie buffe. Nessuno dei due rammentava alcunché della stanza miracolosa, né dell’istituendo Festival della Bolla. Il sindaco fece qualche vaga promessa, disse che Piacenza non avrebbe dimenticato la sua vocazione di città acqua e sapone, ringraziò gli scienziati e li congedò; poi si affacciò ad una finestra, vide una ragazza con una quarta di reggiseno e la propose per una onorificenza comunale. La rivoluzionaria stanza pro-bolla che avrebbe potuto mutare il destino di Piacenza giace dimenticata in un magazzino del comune. Ogni tanto gli autisti delle linee urbane vanno lì a farsi una canna a fine turno o a giocare a squash.

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02 luglio 2007

Ce n'est qu'un début

Oggi fa un anno che scrivo stupidaggini su sfondo celeste. Non so proprio come celebrare questa fausta ricorrenza, a dire il vero: mi sarebbe piaciuto fare un bel giro in bici fino ad un chiosco di kebab in mezzo all’estate tedesca, gradevolmente bionda e scollata, oppure andare a nuotare dove sbocca in mare il fiume, poi uscire e ancora gocciolante papparmi in tutta calma un burek o una zuppa di pesce. Però sono su un treno per Roma, porto pantaloni lunghi per ragioni di opportunità lavorativa, ho caldo e vorrei un gelato al pistacchio o al cioccolato fondente. Dunque scrivo, perché in fondo è per questo che lo si fa, o no? Per allontanarsi un attimo. Non dico evadere, perché nessuno di noi è segregato nelle carceri turche, però ogni tanto ci sta di sbuffare ed aver voglia di leggere una scemata.
E qui entro in gioco io, che vi prendo per la manina e vi porto nella dimensione blé, in mezzo a sterminate piantagioni di pasta fredda ai capperi, cani paralleli che non si incontrano mai e che si guardano perplessi, non sapendo se la geometria permetta loro almeno di latrarsi contro a vicenda, sedie a dondolo poste al centro di un’autostrada, evitate con cura perfino dai mezzi pesanti, e visioni ingannatrici di donne dai contorni incerti, di brina e desiderio, che al momento di possederle scoppiano come bolle di sapone, al suono incongruo di una sveglia. In tutto questo, nel mondo reale, per l’esattezza dalle parti di Genga-San Vittore Terme*, mi sta accadendo una vicenda che definirei curiosa, non volendo inflazionare aggettivi che sarebbero più calzanti (quali vergognosa, frustrante, irritante ed altri che non si possono scrivere a quest’ora, un po’ come lo scoiattolo che scoreggia nella foresta). Ragion per cui mi affretto anch’io a rientrare nel mondo improbabile, inesistente e civile, dove i treni sono rosa ed hanno un musetto adorabile, i controllori portano un cappello scuro con la visiera rigida appoggiato sulla testona pelosa e i legislatori –essendo immaginari- riescono ad essere consequenziali ed efficaci e a non insultare l’intelligenza degli utenti.
Ma la smetto qui. Spero soltanto che vi siate goduti questo primo anno di gattusometro e che vogliate commentare e dare suggerimenti atti a far crescere e germogliare questa piantina di lettere e parole, cosicché ne sortiscano risate, idee e, se non è chiedere troppo, qualche riflessione; poi io ignorerò il tutto con comodo e continuerò ad agire in base al mio più infantile capriccio, si capisce, però voi almeno ci avrete provato. Vi saluto con riluttanza e vi prometto altre e sempre nuove stronzate, ché di quelle –grazie a Dio- non c’è carenza in chi scrive.

*Arduo da credere, ma anche tale luogo è a pieno titolo mondo reale.

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