10 aprile 2009

Le anime mólle

La morte, parlandone in generale, è un evento fastidioso. Essa presenta tuttavia l'innegabile vantaggio che poi, una volta morti, è fatta: un istante dopo il proprio decesso (utilizziamo la parola "istante" in mancanza di termini più precisi, perché non di un lasso di tempo, per quanto ridotto, si tratta) l'anima è libera di presentarsi all'Onnipotente e di godere della sua luce, oppure di farsi suppliziare da demoni specializzati e assolutamente professionali, o anche di morire e basta, sparire, perdersi nell'atmosfera, annullarsi di persona in attesa che l'implosione dell'universo annulli tutto il creato. Questo, ovviamente, a seconda delle convinzioni di ognuno e del poter vantare o meno lettere di referenze da parte di prelati cattolici.
La morte in mare rappresenta un'eccezione a questa regola. L'anima dei morti, impregnata d'acqua, fatica ad uscire alla superficie e a raggiungere il suo destino: si rende bene l'idea affermando che l'anima del deceduto boccheggia, nuota con difficoltà e solo con grandi sforzi riesce a raggiungere il cielo; qui, di norma, si ferma un attimo ad asciugare, a riposarsi e a guardare per l'ultima volta - con l'assoluta indifferenza che è tipica di chi ormai non ha preoccupazioni di sorta - il luogo della propria vita e della propria morte. Quando poi c'è mare grosso, e specialmente se i corpi sono imprigionati in navi che affondano, chiusi dentro porte malauguratamente stagne e pressati da masse d'acqua ignare di ogni misericordia, l'anima ha un bell'affannarsi nella fuga: non c'è nulla da fare, anch'essa è condannata a scendere verso gli abissi con il proprio e gli altrui cadaveri. A quelle profondità, la risalita diviene definitivamente impossibile. Nei giorni e nei mesi che seguono, l'anima si aggira, agitata, dentro e intorno al relitto; prova a nuotare verso l'alto, ma desiste presto; perde infine ogni speranza e si limita ad avvicinarsi sempre più al proprio corpo in disfacimento, nuotandogli intorno in strette volute, oppure vegliandolo seduta su un cannone o su un pezzo superstite del parapetto.
Col tempo, tuttavia, le cose cambiano, e anche le anime dimenticano tante cose. Se si potesse visitare ad esempio quel che resta della Szent Istvan (o un'altra delle tante navi che riposano nel ventre dell'Adriatico stretto e tormentato) si troverebbe che le anime dei marinai non si aggirano più, gelose, intorno ai corpi che le ospitavano, corpi di cui, peraltro, sono rimasti solo gli scheletri, senza che resti di norma alcuna traccia delle eleganti divise della Marina Imperial-regia; adesso le anime vagano solitarie per le lamiere arrossite, oppure nuotano tutte assieme, diafane, come un banco di meduse. Non si spingono più verso la superficie e non cercano di reclamare il proprio corpo; si limitano ad attendere un giorno a venire, quando ogni anima sarà tratta dagli abissi più profondi e riunita ai rispettivi scheletri bianchi. A questi ultimi verrà allora restituita la carne, adesso usurpata dalla fame dei pesci, cui d'altronde risulta al momento più utile.

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