29 aprile 2012

L'amore e altre bestie

Credo ci sia qualcosa di bestiale e istintivo nell'attaccamento che ciascuno di noi ha per la primavera. Se uno ci pensa, e vi prego di farlo, è insensato che uomini e donne civilizzati, pienamente inseriti in una cornice di rapporti sociali e sentimentali complessi, se ne escano poi a parlare di «risveglio dei sensi», come fossimo animali che attendono lo scioglimento delle nevi per dare il via alla stagione degli accoppiamenti; e non ha senso che, gente che vive magari in città celebri!, la colmi di vacua allegria una rinascita della natura che può interessare tutt'al più i contadini o i veterinari.Ecco, a mio parere in tutto ciò c'è molto di innato e ben poco di umano, se consideriamo che l'uomo si è di certo un po' evoluto dai tempi della sua comparsa nelle steppe africane; se non altro si è alzato in piedi, e da quell'altezza dovrebbe giudicare con più raziocinio le cose della terra, quelle che competono maggiormente alle bestie.
Ma non è di questo che voglio parlare.Io amo la primavera quand'è all'inizio, in quel momento in cui le ore di sole sono tiepide e gradevoli, e tuttavia la notte è ancora fredda, e trascina le sue ombre gelide fin dentro la mattinata. Mi pare uno scambio equo, in qualche modo; amo la primavera perché mi pare razionale. È in un giorno così, qualche tempo fa, che mi è accaduto un fatto del quale non mi sono più liberato.Quella mattina mi ero alzato molto presto, con il preciso intento di salire su uno di quei rari tram che già sferragliano sui vialoni di periferia mentre la città dorme ancora.
Di quella mattina ricordo soprattutto il freddo. Del freddo mi piace che fermi in una morsa i pensieri, i quali altrimenti si perdono e non lasciano niente, come un uccello che vola via da una stanza con le finestre aperte in cui è entrato per errore. Invece il freddo dona concentrazione, se non può garantire l'intelligenza; e so che in quel tragitto sul tram, nonostante il rumore delle rotaie percosse, pensai molto e feci riflessioni gravi e forse interessanti. Ma le ho dimenticate tutte.
Quando giunsi all'università - studio psicologia - gli ampi corridoi della facoltà erano vuoti; c'era solo qualche usciere assonnato quanto me. Non mi interessai a loro, come loro non si interessarono a me; mi parve già allora un baratto giustissimo. Mi diressi invece nell'aula vuota, mi sedetti ed attesi.Giorgia era l'unica ragione per cui mi ero svegliato quella mattina. Giorgia ha gli occhi chiari, i capelli lucenti come cristalli e una pelle chiara, di porcellana, tanto che a volte verrebbe naturale colpirla con le nocche per sentirne risuonare il vuoto; quando non capisce qualcosa, a lezione, mordicchia una matita e mette su un adorabile broncetto. Io ero lì per lei; e lei, per magia o più probabilmente per i poteri che io stesso le avevo conferito sulla mia anima, riempiva già da assente il posto che le serbavo accanto a me.Quella mattina, come ogni mattina, Giorgia arrivò tardi. Fu felice di vedermi: per il posto che le avevo tenuto, poiché era una lezione a cui lei teneva particolarmente, ma anche - io credo - perché ero io e perché avevo pensato a lei. Mi salutò e mi disse qualcosa, ma la conversazione si spense subito, ben prima che arrivasse il professore. Io a Giorgia non so dire nulla e non so chiedere nulla.
Alla fine della lezione, Giorgia mi sorrise e si avvicinò a me.«Senti» mi disse, e mentre parlava aveva il collo piegato di lato «ti va di venire con me con me in centro, oggi pomeriggio? Possiamo prendere un tè alla pasticceria vecchia, quella che sta di fronte al cinema. Dopo, se vuoi, andiamo a vederci un film; ma si può anche restare lì e prendere un altro tè, o non prendere niente».Non replicai nulla; era tutto lì. Ricambiai il suo sorriso, per educazione, ma anche quello mi parve superfluo.
Tornai a casa per pranzo e mangiai con la cieca applicazione di una macchina, per abitudine ma senza fame. Poi andai a letto: ero stanco per la levataccia e in più, la sera, volevo risultare bello e riposato per Giorgia. Ma non crediate che lo facessi per competere con la sua bellezza, per così dire, o perché volessi conquistarla: non ho mai voluto prenderla d'assalto, Giorgia, alle cui porte restavo accampato come un pellegrino ai piedi di un tempio. Mi bastava restare lì a contemplarla, godendo della sua ombra e della sua grazia; e tutto ciò che sognavo era che lei mi aprisse le porte. Ma io, io non avrei mai mosso contro di lei.Ad ogni modo non dormii, o dormii male. Feci sogni pesanti e aggrovigliati, in cui tornavano come a burlarsi di me tutti quei nomi e quelle facce che mi avevano messo in testa a lezione. Posso dire con certezza e senza animosità, dopo anni di studio, di odiare la psicologia. Avrei forse scelto Giurisprudenza, mi avessero lasciato scegliere da me; ma mia madre no, mia madre è appassionata di Freud, si diletta di psicoanalisi casalinghe, e compera libri in lingua originale anche se non sa il tedesco. Mi ha ripetuto talmente tante volte quelle che ai suoi occhi sono formule magiche che alla fine mi sono convinto che tutte quelle parole volessero dire chissà cosa, e che la loro evidente insensatezza fosse prova di chissà quale fascino. Ho compreso tardi che per lei la psicologia non è che un modo per interpretare i sogni delle amiche e per avere numeri sicuri da giocare al lotto; ai suoi occhi innamorati e deferenti io sono uno sciamano, non uno studioso. E la mia disciplina non è che bassa divinazione.Può darsi d'altronde, riflettendoci, che abbia ragione lei. Mi domando a volte se la cosa più razionale, e dunque più umana, non sia concludere che certe domande non vanno fatte, come a tavola non si parla - proprio perché si è tra persone civili - di certi argomenti. C'è un fondo di morbosità, o molto più di un fondo, nello scandagliare le profondità dell'anima: tale morbosità richiama alla mente l'andamento del cane del caccia, che torna a fiutare la stessa zolla di terra finché non trova una traccia sicura, e allora parte, sicuro di poter stanare la preda, quella preda che prova a fuggire nella terra, con il cuore che esplode di terrore; e io non sono sicuro di voler avere a che fare con certe vergogne e certe bestialità.Ma sto divagando.
Mi svegliai, dicevo, per nulla ristorato da quel sonno troppo affollato; allora andai al bagno a rinfrescarmi. L'acqua fredda mi fece bene, soprattutto perché il gelo mi ricordò la mattina, e la mattina mi ricordò Giorgia. Tornai in camera, per indossare i vestiti che avevo già scelto con attenzione: i pantaloni blu scuro, la polo color vinaccia, un maglioncino bianco e blu. Speravo che Giorgia avrebbe notato le mie mani lunghe, forse un po' pallide, e i bicipiti che guizzano come topi di campagna ogni volta che piego il braccio. Sorrisi a me stesso, e a lei.Ma non trovai nulla: scomparsi. Guardai nell'armadio, e non c'erano; non c'erano nemmeno tra i panni da lavare.Chiesi in malo modo spiegazioni a mio fratello, ma sospettavo già che non me ne avrebbe date; infatti era in salotto, intento a giocare stancamente alla Playstation, e mi guardava con la calma sgomenta degli ignari e degli innocenti.
Indossai le prime cose decenti che trovai nell'armadio, corsi alla fermata del tram e salii al volo su un mezzo in partenza.Quello sforzo aumentò, se possibile, il mio sdegno e la mia indignazione. Chi mi aveva giocato quello scherzo meritava ai miei occhi una pena brutale e selvaggia; una punizione di quelle che si infliggono ai traditori, perché quel sabotaggio era - nei miei confronti, e nei confronti di quel sentimento sacro - nient'altro che tradimento. Sapevo che anticamente i traditori venivano squartati, e approvai come giusta e morale quella risoluzione. Mi chiesi cosa sarebbe stato di me se all'università avessi scelto Storia, e mi risposi che sarebbe stata una scelta saggia e una carriera accademica di tutto rispetto. Sicché maledissi di nuovo la psicologia e i comportamenti indotti. In quello slancio d'odio, scordai perfino che senza la psicologia non avrei mai conosciuto Giorgia.
Arrivai infine alla pasticceria e salii a due a due, con furia e metodo, gli scalini di legno che conducevano alla romantica saletta da tè (a ogni passo scricchiolavano sotto di me, come ad annunciare il mio arrivo). Mi sentivo spinto da un istinto infallibile, e infatti la trovai là. Era seduta a un tavolo un po' discosto dagli altri in compagnia di...Quando mi vide, Giorgia sbiancò. Scoperta, colpevole, forse pentita, si alzò di scatto e si addossò al muro, in fondo alla stanza. Io urlavo; lei disse qualcosa, o forse lo rantolò, ma non le badai: continuai invece a vomitarle addosso il mio disprezzo, la chiamai puttana, le dissi che la sua pelle straordinariamente soffice e luminosa non copriva appieno la sua vera natura di bestia squamosa, di rettile, di viscido serpente dalla lingua biforcuta. E proseguii ancora a lungo, senza più badare alle parole che pronunciavo, fino a che persi la voce.Quella era la prima volta che parlavo a Giorgia, la prima volta che le dicevo davvero qualcosa. Può sembrare paradossale, a un occhio superficiale, ma se ci pensate non lo è affatto. Tutto ciò che chiedevo a Giorgia era nient'altro che poterla ammirare, in ginocchio davanti a lei, come ci si genuflette dinanzi a una cosa sacra. Ma lei, sedendosi a quel tavolo, aveva scelto l'uguaglianza; e io non potevo gestire quell'uguaglianza che non avevo richiesto.
Non ricordo come lasciai la pasticceria e come tornai a casa. Più tardi, quand'era già notte da un po' e io ero già a letto, mi venne il pensiero folle di rimanere ad aspettarmi in piedi, con il preciso intento di chiarire le questioni in sospeso, di farmi una ramanzina e con quello, inconfessato, di farmi pagare a forza di pugni i baci rubati. Ma non sentii nessuno rientrare e alla fine mi addormentai con l'idea che l'indomani avrei chiesto al professore di consigliarmi uno bravo da cui andare.

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