21 giugno 2007

Promesse della letteratura

Ricevo, in una busta corredata di alcuni proiettili di mitra, e pubblico volentieri il racconto di una giovane scrittrice. Si chiama masina q. E' un'esordiente, ma vale la pena di seguirla. E poi era anche ora che questo blog puntasse un minimo sulla pornografia come fanno tutti gli altri.

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Nessun orifizio ci giungeva mai nuovo, a quello fetuso. Così pensavo e intanto allungavo la mano verso il cuscino che quella notte avevo sorresso la sua testa ingellata. Ma il suo capo pulsante di pensieri positivisti che mi avevano innamorata non c’era più: era rimasta solo una pozza di brillantina, untuosa come il suo amore per me. Calogero era già al bar a fare colazione e a vantarsi di come mi aveva punita. Lui mi amava e mi colmava di tenerezze. Mi accostatti alle persiane e le allontanabbi un poco. Il bar era lì di fronte alla facciata del mio palazzo, finemente trapuntata di cazzi di stucco, e non abbey difficoltà a individuare il mio innamorato, dolce come un cannolo immerso nella melassa e rifinito di petrolio. Calogero mi appariede vicino e lontano, animoso e corporeo, santo e mafioso, con il cappuccino in una mano, l’altra mano sul cavallo dei pantaloni; stretto nel pugno, io lo sapevo, c’era il suo pene grifagno, il suo pene saraceno, il pene turco e corsaro che ogni volta sbarcava vittorioso nel mio porticciolo turistico. Gli altri avventori scattavano foto col telefonino.
La prima volta l’avevo visto alla processione di San Pastrugno vergine. Calogero guidava l’Ape con la statua del santo. Stava in piedi sul sedile, fumando e grattandosi. Era notte e lui portava gli occhiali scuri, come mai dimenticava di portarli; ogni tanto sgassava, se attraversava un gattino o un comunista, e le vecchie arrancavano dietro l’apetto con la statua penzoloni. Io ero al balcone del mio palazzo; mio padre, il tiranno, mi aveva surrettiziamente proibito di partecipare alla cerimonia. Come ogni sera, se ne stava sprofondato nell’ampia poltrona foderata di golden retriever, ascoltando musica lirica e sgozzando donnole. Mia madre, la martire, faceva il segno della croce e singhiozzava, poi singhiozzava e faceva il segno della croce, poi da capo, tipo gioca jouer. Dal ghigno pasquale di lui comprisi che anche quella notte l’avrebbe posseduta con la forza, grugnendo e sparando in aria come faceva sempre, mentre lei mormorava la formazione dello Steaua campione d’Europa. Mia madre, condannata a essere pestata e a godere come una femmina di zebù. Io mi appoggiatti alla balaustra, languida come una sfogliatella napoletana, e fu allora che Calogero mi notatte. Frenatte di colpo e San Pastrugno volò via, fino a spetasciarsi contro la caserma dei carabinieri frantumandosi in mille pezzi, ognuno degno di venerazione. Calogero mi guardò dietro le sue lenti a goccia. Io sfregatti il deretano sulle colonnine del balcone, in segno di buon augurio. Capì, neozelandese com’era: ammucchiando anziane fedeli, saliede fino al mio terrazzo e mi strinse la mano con passione e grasso d’officina. Io lo baciatti lì. Mio padre ruggette di gelosia: la sua unica figlia nella mani capaci e rapinose di un altro uomo! Solo il sacrificio di mia madre, che si piegatte dinanzi a lui e assumé la posizione del dagherrotipo, salvò a me e a Calogero dalla tremenda vendetta dell’allevatore di donnole. Egli annusò la natura femminile, poi la prese e ne godde; finché non esplodette il suo seme con ululato disperato di cacciatore alla luna. Poi cadette nel sonno senza sogni tra i cadaveri degli animaletti, morti e ancora caldi.
Da allora io e Calogero siamo una cosa sola. Al limite c’è qualche amico suo, se proprio insiste e lo chiede con educazione.

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