10 marzo 2009

La complessa architettura di un campo di provincia

Se si potesse scavare sotto gli spogliatoi dello stadio Ezio Scida di Crotone, si troverebbe uno stanzino angusto, immerso nella terra nera e umida, grande poco più del corpo di un uomo. Questa stanza, che non appare nel progetto originale e di cui nessuno conosce l'esistenza e l'ubicazione, è posta diversi metri al di sotto del livello del prato verde e non è raggiungibile in nessun modo, perché non ci sono scale o altri passaggi che la colleghino agli spogliatoi. La stanza è sepolta nella terra che la circonda da tutti i lati. Paradossalmente, se qualcuno fosse al corrente della sua esistenza, dovrebbe necessariamente negarne la possibilità.
Eppure lo stanzino c'è, e dentro lo stanzino c'è un uomo. L'uomo è chiuso nella stanzucola poco più vasta del suo corpo; ma per lui quello spazio potrebbe essere enorme, perché non è la ristrettezza del luogo a impedirgli di muoversi. L'uomo non parla, non sente rumori, non percepisce odori e non è neanche in grado di aprire la bocca e tirar fuori la lingua come una sentinella solitaria; l'uomo sa di avere un corpo non perché l'abbia mai visto o toccato, lo sa e basta. Allo stesso modo, l'uomo sa di essere nella stanza sotto lo stadio Ezio Scida di Crotone, non perché ce l'abbia messo qualcuno o perché ricordi il momento in cui per qualche circostanza vi è stato rinchiuso, ma solo ed esclusivamente perché lo sa. L'uomo il cui corpo non può muoversi riconosce con esattezza il momento in cui, al di sopra di lui e incuranti della sua presenza, picchiettano i tacchetti sulle piastrelle degli spogliatoi, come un temporale estivo dalla larghe gocce su un terreno durissimo per la lunga sete. Il Crotone fa il suo ingresso in campo tra gli applausi, ed è come se l'uomo sotterrato e muto li sentisse tutti scoppiare in petto; costui proverebbe qualcosa di simile ad una vivissima angoscia non priva di sorpresa, se solo fosse in grado di provare una qualsiasi sensazione.
Se qualcuno lo vedesse, penserebbe che quell'uomo è morto, o quantomeno che si tratta di un vegetale senza consapevolezza di sé. L'uomo, da parte sua, si domanda spesso quale sia la propria condizione: se stia dormendo o sognando, se esista sul serio lo stanzino in cui sa di essere rinchiuso, o se invece è davvero morto e tutto quello che immagina è finzione ostinata del suo cuore che non vuol saperne di smettere di battere. Di certo, non è vero che l'uomo non ha consapevolezza, giacché invece pensa in continuazione, costruisce castelli e porta il mare (che non è distante dallo stadio) nel buio e nel chiuso dello stanzino; e a volte crede perfino di chiudere gli occhi, perché ha immaginato troppo forte il sole e ne è rimasto abbagliato. Quando si convince di essere deceduto, l'uomo si chiede se davvero la morte è uno sgabuzzino stretto sotto allo stadio Ezio Scida, o se piuttosto ci sia molto altro, che ora purtroppo gli sfugge. O non c'è niente, e di nuovo la sua mente lo inganna e cerca di tranquillizzarlo.
Le volte in cui, invece, si ritiene vivo, l'uomo comprende che quello stanzino buio e senza uscite non è di fatto il problema, perché la sua unica prigione è il suo corpo che lo schernisce, quel corpo morto - lui sì - che rifiuta di muoversi. Quando capisce questo l'uomo vorrebbe piangere, e più ancora vorrebbe morire. Morire gli sembra anzi l'unico modo di giocare quel corpo che lo odia, quella maledizione che sogna di cancellare. Solo allora realizza che morire vorrebbe dire anche lasciare la stanza nascosta sotto l'Ezio Scida, dimenticare per sempre il crepitio dei tacchetti e il saltellare compatto dei tifosi che rimbombano nel suo petto, anche se non può sentirne il rumore. L'uomo non conosce altre emozioni; per questa ragione, perfino l'ipotesi di rinunciare a tanto poco - se solo fosse possibile - gli provocherebbe un brivido.

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