21 aprile 2008

La primavera dell'amore

Torna la primavera, e con essa si riaffacciano alle nostre città gli apetti. Eccoli, garruli e ronzanti come nessuno: sono a cinque chilometri di distanza, arrancanti su una salitella di nessuna difficoltà per un dialitico in carrozzella, e già ci assordano col loro petare in tono acuto. Eppure li amiamo e ci riempiono di gioia, i nostri cari apetti carichi di rami, cravatte di seta, cadaveri e plastici scartati di immaginifici progetti per il Guggenheim di Bilbao. Arriveranno da noi esausti eppure ancora felici, con la metaforica lingua di fuori come altrettanti metaforici cani, e noi li ricopriremo di petali di rosa.
L'apetto è vita e giovinezza. L'apetto è la disarmante simpatia della sbandata in curva, della caduta nel fosso senza conseguenze gravi, della partenza alle tre del mattino, ubriachi di pessimo lambrusco (è antipatriottico ed è per l'appunto pessimo, ma costa poco), che spinge al risveglio e alla bestemmia dei pacifici abitanti della classicheggiante campagna marchigiana (dimentichi della loro gioventù apemunita; ma vanno scusati, si sono svegliati ora). L'apetto è armonia delle forme, è il ronzio che esce da un arco a tutto sesto, è il mezzo di trasporto più utilizzato nella Città Ideale, è il sorriso che ti giunge al viso quando li incontri una domenica pomeriggio che giri per strade verdi contornate di castelli e fattorie.
L'apetto, che di notte infastidisce i dormienti, di giorno getta nel panico gli automobilisti che lo seguono, perché ignora la linea retta e qualsivoglia stabilità; trasporta rena per scopi edilizi e ne farà cadere metà alla prima curva, decidendo l'infausto destino di quel pullman di pellegrini polacchi che procede dall'altra carreggiata e che suppone di dirigersi a Loreto. Sorella morte, fratello apetto, due volti dell'eterna commedia dell'esistenza, rappresentata ogni primavera in un angolo gradevole e se dio vuole soleggiato dell'Italia centrale (l'apetto, di passata, è per una socialdemocrazia sul modello scandinavo).

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