27 febbraio 2009

Il Mistero della Merda a Palazzo (Duftkrieg und Literatur)

C'era una volta, tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, un Re che viveva nella sua corte insieme ai camerlenghi, ai conestabili, ai buffoni, ai principali vassalli e a tutto quel personale necessario affinché un organismo complesso come una corte vada avanti ben funzionante e gradevole come un orologio svizzero.
Ci rendiamo conto che un simile esordio potrebbe spingere il lettore a collocare questo racconto nella dimensione del fiabesco e dell'inverosimile, ma protestiamo a gran voce l'autenticità e, lo vedremo tra poco, la drammatica serietà delle vicende che narriamo. Per dimostrare d'altra parte la veridicità di questo racconto ci conviene farla breve e fare direttamente la parola agli sfortunati protagonisti della storia.
"Maestà", disse dunque un giorno di tanto tempo fa, in quel paese lontano lontano, il Gran Camerlengo attorniato dai camerlenghi minori, dai conestabili, dai vassalli, dai buffoni e da tutto il personale di corte, "mi pare di avvertire un deciso puzzo di merda". Così dicendo, il Gran Camerlengo arricciò il lungo naso aristocratico.
Il Re assunse allora un'espressione grave e decisa e domandò ai suoi notabili di chi fosse la colpa di quella puzza di merda. I notabili assunsero a loro volta un'espressione grave, ma più pensosa, e dichiararono recisamente di non avere risposte certe ad una tale questione.
Se la corte vagava nel dubbio, però, il fetore era ben reale, e non era in alcun modo reso più leggero dall'afa di quei giorni: si era d'estate, e i cattivi odori assediavano da ogni lato la cittadella dei potenti. Il sovrano fece allora sgomberare il lussuoso palazzo, con le sue cantine e le sue dépendance, a favore di un altro palazzo altrettanto fastoso, fornito di altre cantine e di altre dépendance. Una volta completato il trasferimento, tuttavia, ci si accorse con terrore che anche la puzza aveva seguito la corte. A quel punto il monarca si arrabbiò moltissimo e decretò che se lui doveva puzzare, allora tutto il regno sarebbe vissuto nel tanfo più pestilenziale, e che dunque le fogne reali sarebbero state chiuse fino a che non venisse risolto il Mistero della Merda a Palazzo. Il reame navigava già da tre giorni nella merda, a seguito di tali disposizioni, quando giunse a corte, come ogni settimana, il fanciullo incaricato di lustrare gli stivali del Re con le sue rapide ed efficienti manine. Il Re si sottomise a quell'incombenza come ad un impegno impossibile da rifiutare, ma la situazione era tale che nulla poteva distrarre l'animo nobile dal sovrano dall'imbarazzo e dal fastidio di quel prolungato fetore.
Ma quell'intreccio stava per risolversi in maniera del tutto inaspettata. Non appena ebbe avvicinato le sue piccole esperte mani ai morbidi stivali di squisita fattura, il bambino esclamò infatti a gran voce: "Maestà, siete voi a puzzare di merda". Ed era vero: sotto gli stivali reali c'era infatti una cacata di enormi dimensioni, ricordo di una qualche visita alle scuderie, che né i camerlenghi, né i conestabili, vassalli, buffoni e funzionari vari avevano saputo individuare e rimuovere.
A questo punto dobbiamo ripeterci: questa narrazione non è favolistica, né appartiene al benemerito genere dei raccontini morali. Prova ne sia che il fanciullo fu frustato a sangue per lesa maestà, e solo la generosità del monarca salvò quel maleducato dal patibolo. Ad ogni modo, bruciati gli stivali e rimossa la ragione del tanfo, il re poté di nuovo respirare. Si provvide anche, espletate le necessarie pratiche, a far riaprire le fognature dei quartieri popolari.
Qualche giorno dopo, nonostante tanta sollecitudine, nelle plaghe più sporche e povere del reame si iniziò a mormorare di un'epidemia di colera.

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12 febbraio 2009

Una storia verissima

Era una giornata umida e verdescura, uno di quei giorni in cui il sole resta a dormire fino a tardi, e lascia che la bruma padana si impadronisca di quel centro Italia che non normalmente non le apparterrebbe (anche se la provincia di Arezzo è una parte di Toscana poco classica e inattesa, più da cinghiali che da umanisti). Erano quasi le undici della mattina, anche se sarebbe potuto trattarsi di qualsiasi altro orario del giorno, e dal cielo bianco sembrava piovigginare latte, andandosi a rifrangere sui vetri dell'Intercity 585, partito da Milano e diretto a Napoli Centrale. Erano quasi le undici, si diceva, e la voce dell'altoparlante irruppe negli scompartimenti annunciando che si era in arrivo alla stazione di Arezzo. Alcuni passeggeri si alzarono, acciuffarono i propri bagagli e si diressero verso le uscita; ma li fermò la stessa voce che li aveva fatti muovere, dando loro una terribile notizia nella lingua franca dei nostri tempi.
"We are no arriving in Arezzo station".
A quel punto, comprensibilmente, un moto di angoscia si impadronì di quelle persone che erano nella migliore disposizione d'animo, convinte di esser giunte a casa con trascurabile ritardo, e tutti si chiesero quale sarebbe stato invece il proprio destino; dato che no sarebbero arrivate alla stazione di Arezzo.
Il macchinista, ad ogni buon conto, frenò e fermò il lungo serpentone in mezzo alla campagna. Ben presto si formò un assembramento e iniziarono le discussioni. Il capotreno, di fronte ai passeggeri attoniti, volle giustificarsi dicendo di aver semplicemente dimenticato una "w" e di non aver coscientemente deciso di cancellare la stazione di Arezzo. Restava il fatto che a quel punto, se le parole dell'autorità hanno ancora un senso e se ancora di autorità si può parlare nel nostro disgraziato paese, l'Intercity 585 doveva ignorare Arezzo.
Ma come? Tornare indietro, non se ne parlava neanche, perché altri treni incombevano sulla linea; scambi e altri binari non ce n'erano, dunque l'intercity era intrappolato tra il suo passato recente e il proprio mutato destino. Il macchinista, uomo d'altri tempi, propose allora di abolire gli aretini, non potendo abolire Arezzo, e di fucilare dunque i possessori di biglietto per quella città. Tuttavia, gli fecero notare, anche tralasciando la mancanza di armi, con quel massacro non si sarebbe impedito ad altri di salire, ciò che avrebbe vanificato il tutto. Fu allora che un passeggero, sceso dal treno sull'erba fradicia per prender parte a tutto quel confabulare, alzò lo sguardo ai selvosi dintorni ed ebbe un'idea: quella di camuffare il treno con frasche. Tutti accolsero con favore quella proposta e si misero all'opera con zelo. I bambini raccolsero fiorellini ed erbetta per aiutare anch'essi la mimetizzazione.
Una mezz'ora più tardi il verde treno invisibile ignorò la stazione di Arezzo, pur passandoci in mezzo. Questo causò in seguito il proliferare di leggende sul treno scomparso misteriosamente e diede adito anche ad una puntata speciale di Voyager, in cui si cercò di dimostrare che su quel treno viaggiava tra gli altri Ettore Majorana e che questi recava nella propria valigetta il Sacro Graal.
Ovviamente queste sono solo fandonie. L'Intercity 585 recuperò strada facendo parte del suo ritardo ed arrivò a Napoli con sufficiente puntualità. Tutte le fermate intermedie vennero annunciate nella sola lingua italiana e scrupolosamente osservate.

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06 febbraio 2009

Primati dell'aviazione

Il trasporto aereo di scimmie ha una storia lunga e ingiustamente misconosciuta. Si può dire anzi che esso sia nato con l'aviazione stessa; perché sta da sempre fra i sogni più nobili dell'umanità quello di vedere un macaco dal culo blu a seimila metri di altitudine. Già Leonardo, così ci dicono gli storici dell'arte dopo aver bevuto qualche birra in un locale a Montelupone (MC), poneva degli scimmiotti sulle ali dei suoi arditissimi alianti. E anzi non è inesatto sostenere che l'idea del volo è inseparabile dal concetto di scimmia.
Oggi si dedicano alla movimentazione atmosferica di scimmie numerose linee aeree di tutto il mondo. Queste coraggiose e benemerite imprese, guidate di solito da uomini d'affari coi baffi e con una moglie di qualche anno più giovane, mettono alla portata di tutti i primati superiori, senza le usuali discriminazioni a favore degli esseri umani, numerosissime destinazioni per tutti i gusti. La scimmia che lo desideri può oggi viaggiare su comodi aviogetti alla volta di Tallinn, per dire, perla del Baltico e città totalmente priva di leopardi e di altre consimili minacce.
Il problema, semmai, è che le scimmie non sembrano di norma avvertire l'impulso di recarsi all'aeroporto e tantomeno quello di salire su un apparecchio. Quelle pochissime che salgono su una bicicletta rubata ad un domatore, a un naturalista o a un professore di Agraria a Camerino (MC), e arrivano così ad uno scalo, non si interessano affatto dei depliant che vengono loro offerti dal cortese personale di terra. Al limite si calzano in testa il cappello di un pilota, mettono in mostra la potente dentatura e se ne vanno com'erano giunte, rubando un'altra bicicletta.
Per risolvere il problema della scarsità di passeggeri-scimmia, le compagnie aeree hanno rimesso in auge l'antico metodo adottato con successo, in passato, dai bandeirantes lusitani: si organizzano dunque spedizioni nel folto della foresta per catturare scimmie da caricare a forza sugli aerei. Le scimmie così ottenute vengono munite di carta d'imbarco, poi sottoposte alle formalità aeroportuali. Poche ore dopo, al termine di un gradevole volo allietato da cocktail alla banana, le scimmie narcotizzate in Amazzonia si ritroveranno così nel mezzo di un freddo mattino vallone, livido di nebbia e triste di Belgio, appena fuori dello scalo di Charleroi.
La crisi del trasporto aereo in seguito all'11 settembre e all'esplosione delle compagnie low cost, le difficoltà nel sostenere i costi dello spostamento di animali che non sono assolutamente in grado di pagare i biglietti e, infine, la difficile congiuntura economica di questi mesi minacciano tuttavia di chiudere per sempre l'era gloriosa del trasporto di scimmie sugli aeroplani. I governi nazionali, sensibilizzati dai parlamentari più attenti, promettono comunque che non assisteranno senza intervenire all'agonia di un pezzo importante dell'economia globale.

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