21 giugno 2011

Scene di vita di coppia

Si erano conosciuti all'università; lui le era di qualche anno maggiore, ma lei sembrava più matura e più posata, agli occhi di tutti, mentre lui era giudicato un po' sventato, poco serio, perfino poco credibile. Ma le cose non stavano proprio così; nella realtà, lui era soltanto più fiducioso e più sorridente di lei, e provava una fatica incomparabilmente minore a voler bene alle persone, cosicché anche i critici peggiori della sua leggerezza e del suo stolido sorriso preferivano di gran lunga trovarsi in sua compagnia piuttosto che passare una serata con lei. Con lui, poi, non soltanto ci si divertiva di più, grazie al suo lieve sarcasmo che tanto strideva con il suo sorriso sempre così esibito, ma si poteva anche parlare di se stessi, ci si poteva anche lamentare delle proprie cose, o anche semplicemente esporle, trovando sempre ascolto e comprensione: questo avveniva non solo per la gentilezza d'animo del ragazzo, ma anche per la sua grande - benché nascosta - ritrosia e riservatezza, che gli rendeva sempre difficile o comunque poco desiderabile scendere in dettagli su di sé. Per questo motivo preferiva ascoltare e sorridere. Lei, invece, quando veniva a discorrere di sé lo faceva con un fondo di rivendicazione e quasi di rabbia che gli altri avvertivano; perciò prediligevano la compagnia di lui e sminuivano anche la capacità di ascolto e l'attenzione di lei ai sentimenti altrui, che invece esisteva ed era profonda e raffinata, oltre a essere probabilmente meno strumentale di quella di lui.
Un'altra ragione per cui lei era ritenuta più matura era senz'altro il suo aspetto fisico, che aveva un'apparenza nobile ed elevata che a lui mancava. Molto alta, magra senza essere allampanata, ella portava la sua statura senza la goffaggine che spesso rovina le donne dotate dalla natura di un fisico troppo ingombrante. Aveva mani molto fini e belle, e una carnagione chiara su cui spiccavano, senza dare l'impressione di rovinarla, certi nei neri e regolari. Aveva occhi verdi, grandi e intelligenti, e un viso dai lineamenti estremamente dolci e piacevoli il quale le assicurava quella femminilità che mancava al suo corpo quasi senza seno. Anche lui era alto, più di lei e ben più della media, ma la sua statura che poteva incutere rispetto e perfino timore era molto temperata dal suo passo dondolante, orsesco, e dai tratti non brutti, ma vagamente femminei, privi di decisione. Per farla breve, come succede quasi sempre per quanto riguarda quasi tutti i giudizi umani, lui era giudicato immaturo perché a vederlo sembrava così; e tanto bastava.
Al tempo dell'università avevano avuto una simpatia, non una storia, ma una semplice e fortissima simpatia, senza baci, senza sesso, senza coinvolgimento fisico (varie ragioni avevano impedito questa normale dinamica); ma capita a volte che quelle simpatie lasciate a metà risultino poi legami fortissimi, impossibili da spezzare, non tanto per la rozza e banale osservazione che in entrambi rimane la curiosità del lato fisico mai provato, ma evidentemente per cause ben più profonde e capaci di portare a effetti grandi e duraturi. Così era successo a loro, che per anni si erano visti e sentiti soltanto a distanza di molti mesi, quando lui si era allontanato dall'università, e addirittura si erano del tutto ignorati per un anno intero; ma, quando il destino o la volontà più o meno cosciente di entrambi li aveva fatti reincontrare, si erano presi per mano e non si erano più lasciati.
Ben presto, con naturalezza e senza alcun genere di forzatura o di preoccupazione, finirono per sposarsi.
Anche dopo sposati, si trovarono bene insieme; i loro caratteri si completavano bene dove c'era bisogno che si completassero, e quanto alle affinità profonde necessarie al funzionamento di una coppia e di una famiglia, ebbene, anche quelle c'erano e si mostravano ogni giorno più forti ed evidenti. L'unico piccolo dispiacere di lei era lo strano disinteresse che lo sposo aveva sempre mantenuto nei riguardi di quell'anno in cui non si erano visti né sentiti; a lui in generale difettava la curiosità, almeno per quanto concerne queste piccole cose, e lo metteva a disagio il dover farsi i fatti altrui. Lei, però, pur conoscendolo bene non ammetteva che queste ritrosia assurda valesse anche per un anno intero della vita della donna che aveva sposato; tanto più che la sposa era lei e che era lei stessa, e non un'altra ipotetica compagna di vita, a soffrire di questo comportamento insensato.
Una sera d'estate erano seduti vicini sul divano: lui leggeva un librone, lei gli stava vicino, pensierosa; a differenza dell'uomo, che si era tolto i vestiti del giorno e indossava un paio di pantaloncini da calcio, lei teneva ancora i pantaloni lunghi, perché sapeva che se si fosse spogliata accanto a lui la vista delle sue lunghe cosce chiare l'avrebbe acceso di desiderio, come sempre accadeva, e in quel momento non voleva che questo accadesse. Gli si poggiava di fianco, perciò, ma con le gambe lontane da lui, e tutto il suo essere comunicava fastidio e impazienza. Lui lo sentiva, ma sapeva di non poter far nulla per lei, sicché continuava a leggere.
A un certo momento, come per caso, lei gli chiese: "Ma tu, non hai curiosità di me?".
Egli comprese con un dolore sensibile al petto che quella conversazione sarebbe stata pericolosa, chiuse il libro (dopo avervi posto un segnapagina) e iniziò a rispondere qualcosa, più che altro per prendere tempo in attesa di qualche pensiero acuto che potesse soddisfarla.
"Io", disse lui, "certamente sono curioso di te, e voglio sapere quello che fai, mi interessa anzi tutto quello che fai...": ma non era vero: lui era tanto disponibile ad ascoltare e a comprendere i pensieri e gli avvenimenti di chiunque, ricordandoli poi con grande precisione e attenzione e facendo collegamenti giusti e azzeccati che stupivano sempre favorevolmente gli interlocutori, quanto fermamente intenzionato a non stuzzicare mai di proposito, per nessun motivo, quel vespaio incontrollabile e potenzialmente dannoso che sono i pensieri degli uomini. Inoltre era giunto a una parte molto interessante del volume che stava leggendo e si domandava tra sé quando avrebbe potuto riprenderlo in mano.
"Ma allora perché" (lei avrebbe voluto tormentarlo di più e giungere con molte complesse circonvoluzioni alla domanda, ma davvero non ce la fece) "non mi hai mai chiesto nulla di quell'anno?".
"Quale anno?", domandò lui, che sulle prime non aveva capito, ma poi afferrò proprio mentre lei precisava, infastidita: "L'anno in cui non ci siamo mai visti".
Lui allora seppe che avrebbe dovuto rispondere qualcosa di intelligente, convincente e rassicurante, ma prima ancora di rendersene conto la sua bocca aveva già ribattuto, con la criminale ingenuità che gli era propria e che a volte sorprendeva i suoi amici più intimi, "Tanto non hai fatto nulla di che".
Lei girò la testa dall'altra parte, sconvolta, stupita, scandalizzata; ed era vero che non le era successo niente di che, nulla che deviasse dalla quotidianità universitaria a lui ben nota, ma quel suo rozzo candore le era inaccettabile. Lei allora pensò: "Che dire? è fatto così; è fatto male, indubbiamente, ma non posso cambiarlo, e d'altronde c'è di molto peggio. Almeno è sincero; quasi puro, a volte, e questo è pericoloso e non va bene...". Mentre pensava così, si manteneva ostinatamente e ostentatamente girata verso il muro, evitando il suo sguardo; lui le aveva preso la mano e gliela baciava, e intanto pensava a come rivoltare a suo favore la situazione: in particolare, gli era venuta voglia di indurla a una pratica sessuale che a lui piaceva molto e che da un po' non mettevano in pratica.

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07 giugno 2011

Due notti agitate

Mi è capitato qualche tempo fa un fatto abbastanza curioso e, almeno sul momento, piuttosto spiacevole.
Nonostante fosse un sabato sera, ero andato a dormire presto, perché venivo da un venerdì di baldorie che mi aveva lasciato pochissime ore di sonno; inoltre avevo da leggere un volume che mi interessava molto, un russo, e avevo calcolato di poter scorrere un buon numero di pagine prima di cedere al sonno. Faceva caldo, un caldo abbastanza precoce e fuori stagione, cosicché prima di mettermi a leggere aprii il vasistas, con l'idea di richiuderlo poi nel momento in cui avrei spento la luce; poi però cambiai idea, perché faceva ancora caldo, e decisi di dormire così, in fiduciosa attesa di un refolo d'aria.
Di norma mi sdraio a pancia in giù, con le braccia stese sotto le cosce per non disperdere calore; ma, come detto, quella era una nottata calda, perciò dormii supino. Non ricordo i sogni che faccio, di solito, ma so che quella notte caddi subito in un sonno profondo e feci sogni gradevoli; lo so con certezza perché questa era la sensazione che provavo quando mi svegliai. Quando mi svegliai, si era alzato un po' di vento, ma non fu il freddo a destarmi, né il mattino o la sazietà di sonno, perché doveva essere ancora notte fonda: furono invece due braccia robuste che mi spingevano sulla spalla, dal lato interno del letto (dormo in un matrimoniale ma ne occupo una sola metà), e mi scuotevano con una certa forza. Non avevo la forza di spalancare gli occhi, perciò pensai di aprire la bocca e dire qualcosa: non volevo gridare e non volevo creare nessuna confusione, ma mi sarebbe piaciuto sentire la mia voce e capire se stavo sognando un sogno diverso, brutale, o se quella spinta e quelle braccia esistevano davvero. Ma per quanto mi sforzassi di aprire bocca, non riuscivo a emettere alcun suono, come se le braccia che mi spingevano (non so perché, ma ero sicuro che fossero braccia, e che oltre a scuotermi mi artigliassero) in qualche maniera mi avessero anche tappato la bocca. Credetti di essere in procinto di smettere di respirare, eppure la cosa non mi sconvolse più di tanto: mi infastidiva solo l'ignoranza in cui mi dibattevo, perché davvero non sapevo capire cosa stesse accadendo. Alla fine spalancai gli occhi e scesi dal letto: mi avvicinai al vasistas e trovai che era ancora aperto, ma nell'oscurità non vidi le braccia o il corpo di nessuno.
Tornato a letto, non durai molto a riaddormentarmi, nonostante la sensazione di spiacevole sorpresa che mi era stata lasciata da quello strano episodio. Ero molto stanco, per fortuna, e quando mi risvegliai di nuovo mi sentivo perfettamente riposato. Tutto quel giorno lo trascorsi lontano da casa, per dei piccoli e piacevoli impegni familiari; quando tornai a casa per cena, e poi quando andai a letto, mi sentivo tuttavia piuttosto inquieto.
Lessi ancora il libro russo della notte prima, poi lo posai, feci per dormire ma non vi riuscii; ripresi dunque il grosso volume e lo terminai, e allora davvero dovetti rassegnarmi a dormire. Ma non mi addormentavo. Mi ronzava in testa, più che la paura di una ripetizione della notte precedente, una domanda: che cosa era davvero successo? Avevo sognato? E quale pensiero opaco, quale inquietudine aveva dato vita a un sogno tanto terreno e spiacevole? Cosa avevo fatto, per dirla in termini rozzi, per meritare quel trattamento?
A quel punto, non so perché, mi venne in mente che a mio nonno una volta fu lanciata una fattura: lui tornava dal campo con la sua coppia di buoi, e la prima persona che incontrò nel tragitto verso casa fu la vecchia che era stata chiamata per guarire una sua sorella malata. Non so se quella vecchia avesse avuto una disputa con la famiglia di mio nonno, magari sul compenso richiesto per quella prestazione, oppure se semplicemente avesse voluto dare eloquente prova dei propri poteri, fatto sta che lanciò a mio nonno una fattura, e lui cadde subito in una tremenda prostrazione, tanto che il giorno dopo non riuscì neppure ad alzarsi. Mio nonno non era mai stato malato, e anche ora che ha superato da un po' gli otto decenni di vita si fa fatica a ricordare una sua indisposizione. Alla fine diedero a quella vecchia - a dire il vero non so se fosse vecchia, non ricordo; ma l'immagino così - trentacinque lire in belle monete sonanti, la fattura fu sciolta e mio nonno s'alzò.
Mi vergognai di aver pensato a quella storia e forse, se di notte si arrossisce, arrossii; e tuttavia non potevo ancora dormire, perché non capivo. Eppure la stanchezza cresceva: e nella stanchezza, e in quello strano torpore preoccupato, mi venne in mente di aver toccato una donna, poco tempo prima, una donna che non era la mia ragazza e forse era qualcosa per qualcun altro; non lo sapevo e non me ne ero troppo interessato. Fu come rassegnarmi: non dico che intravidi un legame con quelle strane braccia uscite dal buio, perché non ci poteva essere oggettivamente alcun legame, ma considerai semplicemente che le cose accadono e che vanno accettate. Finalmente dormii un poco; la mattina dopo non ero certo fresco, ma potevo almeno considerarmi più sereno.
Mentre facevo colazione, con la bocca piena, canticchiai qualcosa senza neanche averne coscienza; è questo un modo buffo e sempliciotto di dirsi felici di vivere e, a quanto pare, in famiglia lo facciamo solo io e mio nonno.

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03 giugno 2011

Una divagazione a margine della Battaglia di San Romano

Capita a volte di osservare un quadro, uno di quei bei quadri di massa di una volta, ad esempio La battaglia di San Romano, e di perdersi a fissare non già i cavalieri in prima fila, e i loro cavalli rampanti o già sventrati, ma i fanti e i balestrieri lontani sullo sfondo e i cavalieri in terza e quarta fila, e di domandarsi chi siano o chi fossero costoro, e voler sapere di più delle loro storie e delle loro vite. Ma non si può; quei personaggi sono assegnati allo sfondo, e là restano.
Allo stesso modo esistono vite a cui non abbiamo accesso, e che tuttavia ci interessano per il breve momento in cui possiamo osservarle; poi scorriamo via, la folla ci allontana dal quadro, per così dire, e perdiamo di vista per sempre quelle persone che non sono dipinte e che vivono davvero, ma che vivono in un piano che non intersecherà più il nostro.
Per esempio capita che una sera di fine maggio uno venga invitato a una festa universitaria da una ragazza conosciuta da poco, che non ha ancora chiarito che genere d'interesse nutra verso quel giovane maschio. In ogni caso, per convenienza e per rispetto, quel giovane si sentirà, quella sera, legato in qualche maniera a colei che l'ha invitato, e non degnerà del giusto genere di attenzioni l'amica bionda di lei, che forse studia filosofia e che di certo ha i capelli corti corti e una canottiera appena pizzicata da un seno da ragazzina. Più tardi verrà fuori che quell'altra donna, quella dell'invito, non pensa ad altri che a un russo che la tratta male, oppure non succederà niente di simile e le cose evolveranno in tutt'altra maniera; di sicuro, però, la ragazza bionda non esiste più, è sparita all'orizzonte dietro le fitte lance dei primi cavalieri, e al giovane non resterà che un solo ricordo, il ricordo di un momento - lei che lo accarezza sulla guancia - e un rimpianto innaturalmente lungo.
A volte si prova a lanciare una corda dentro il quadro, come per afferrare la figura che sta già allontanandosi e per riportarla alla propria realtà: ma il più delle volte non basta, non funziona. Il più delle volte il ragazzo alto e sorridente, mentre dice "Mi piacerebbe rivederti" e ascolta "Ma sì, ci teniamo in contatto", sa già che non rivedrà e non risentirà la ragazza dalla pelle scura e dagli occhi neri e stanchi. Lei è già su un treno, e a dividerli per sempre sono un accento diverso, una preoccupazione nascosta, troppe parole non dette, troppe storie sconosciute.
Esistono d'altra parte quadri grandi, tratteggiati con perizia, in cui quelle donne sono personaggi centrali, in cui appare ogni dettaglio della loro vicenda umana, ogni minuzia è presente; ma quel ragazzo non li vedrà mai. E i rimpianti che gli restano in bocca diranno questo, a quel giovane maschio, se avrà la correttezza di esaminarli: che il desiderio sessuale e l'invaghimento portano con sé non solo le voglie più calde, quelle con le mani e la bocca piene di carne, ma guidano anche a una curiosità ficcante, a una necessità di conoscenza vera e profonda che poche altre virtù umane sanno suscitare.

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