Corsi e ricorsi
(Poi la finisco, giuro che poi la smetto con questi tristi amarcord d'una esistenza banale.) Correva l'anno 1994, o mille994 se preferite, e io ero un ragazzino alle soglie della secondaria superiore che guardava il mondiale di calcio statunitense su una poltrona o, a volte, su un cavallo a dondolo sloveno. Non per infantilismo malato, ma perché era comodo e molto meno caldo. Intorno, ad ogni modo, intorno c'era la notte estiva di paese, all'epoca insospettabilmente vivace; ma essa restava ancora ignota alla mia esperienza e percezione, e questo racconto non parla della notte.
I mondiali di quell'anno, i primi che ho analizzato criticamente o, se preferite, i primi in cui non mi sono limitato a tifare Italia, videro tra le protagoniste più fulgide la Romania di un mio idolo d'infanzia, Gheorghe Hagi. Di quella squadra (Stelea, Selymes, Petrescu; Munteanu, Lupescu, Belodedici; Panduru, Popescu, Raducioiu, Hagi, Dumitrescu, se non sbaglio) accompagnai nella notte, e a quell'età è già emozionante essere svegli e attivi a quell'ora, la cavalcata in avanti, abbellita anche da gol meravigliosi - Hagi alla Colombia - e vittorie importanti - quella contro l'Argentina. Poi, ai quarti, i rumeni trovarono la Svezia e diedero vita ad una partita in cui la loro maggior classe pareva frenata dal timore di vincere; io li guardavo e li tifavo con convinzione, fino a restare gelato - mancavano una decina di minuti alla fine - quando la noiosa Svezia passò in vantaggio su uno schema meccanico perfettamente eseguito. Ci rimasi male e mi aggrappai forte alle manopole, sperando che come me caricassero a testa bassa tutti i rumeni, fino ad allora vuoti e imbolsiti; e lo fecero davvero, forse per merito mio o per pura teoria del caos, tanto che pareggiarono a due minuti dalla fine, poi nei supplementari passarono in vantaggio e parvero gestire la partita, finché un'uscita indecorosa del secondo portiere non regalò alla Svezia il pari che, ovviamente, divenne una vittoria ai rigori. Io piansi e protestai; ma la conclusione della partita rimase brutta, ingiusta e imperturbabile.
L'altro giorno, anzi l'altra notte, ché era passata l'ora di cena, guardavo un altro quarto, Uruguay contro Ghana, e di nuovo tifavo convintamente una delle due squadre. Stavolta, per stima verso qualche giocatore, per la maglia, la storia, per tante cose, avevo scelto l'Uruguay (l'Uruguay, per me, è Francescoli e Aguilera: e come si fa a non amarli?). Di nuovo l'intreccio della partita poneva in grave difficoltà la mia squadra, sorpresa da un avversario mediocre, forse anche impaurita, di certo punita da un gol casuale. Come sedici anni prima, tuttavia, ho assistito ad una reazione, un pareggio, il dominio dei "miei", capaci di creare e sciupare palle gol gigantesche; e come sedici anni prima, come spesso nel calcio, meritare ed essere migliori sembrava non valere nulla, perché, per una serie difficilmente ripetibile di avvenimenti, gli africani ricevevano un rigore all'ultimo minuto dei supplementari. Com'è noto, però, l'hanno sbagliato; e stavolta i rigori hanno spinto avanti i migliori, e soprattutto i miei.
Mentre uscivo di casa dopo la partita mi è tornata alla mente l'altra sfida, quella di sedici anni fa, mi sono tornate alla mente le mie notti rumene frustrate, quel pianto e quella disperazione. Allora però ero un ragazzetto piccolo e vuoto, e avevo tutto davanti; la scuola, la vita, la speranza, tutto quello che ti fa dimenticare le lacrime e le sconfitte. Ogni tanto, parlando di calcio, ho nominato quella Romania sfortunata; ma era solo il vago lontano rimpianto di un ragazzo sereno.
Viceversa, oggi, non vedo nulla davanti a me. Nulla in cui sperare, perlomeno; nulla in cui sperare con un minimo di ragionevolezza, solo frammenti di passati inseguiti e mai raggiunti, o toccati appena e divenuti futuri sghembi e inabitabili. Eppure quel rigore sbagliato, quella partita vinta, mi hanno tirato su di morale: forse, ho pensato, è un segno di qualcosa. O forse basta poco per rendermi felice.
categorie: raccontini
I mondiali di quell'anno, i primi che ho analizzato criticamente o, se preferite, i primi in cui non mi sono limitato a tifare Italia, videro tra le protagoniste più fulgide la Romania di un mio idolo d'infanzia, Gheorghe Hagi. Di quella squadra (Stelea, Selymes, Petrescu; Munteanu, Lupescu, Belodedici; Panduru, Popescu, Raducioiu, Hagi, Dumitrescu, se non sbaglio) accompagnai nella notte, e a quell'età è già emozionante essere svegli e attivi a quell'ora, la cavalcata in avanti, abbellita anche da gol meravigliosi - Hagi alla Colombia - e vittorie importanti - quella contro l'Argentina. Poi, ai quarti, i rumeni trovarono la Svezia e diedero vita ad una partita in cui la loro maggior classe pareva frenata dal timore di vincere; io li guardavo e li tifavo con convinzione, fino a restare gelato - mancavano una decina di minuti alla fine - quando la noiosa Svezia passò in vantaggio su uno schema meccanico perfettamente eseguito. Ci rimasi male e mi aggrappai forte alle manopole, sperando che come me caricassero a testa bassa tutti i rumeni, fino ad allora vuoti e imbolsiti; e lo fecero davvero, forse per merito mio o per pura teoria del caos, tanto che pareggiarono a due minuti dalla fine, poi nei supplementari passarono in vantaggio e parvero gestire la partita, finché un'uscita indecorosa del secondo portiere non regalò alla Svezia il pari che, ovviamente, divenne una vittoria ai rigori. Io piansi e protestai; ma la conclusione della partita rimase brutta, ingiusta e imperturbabile.
L'altro giorno, anzi l'altra notte, ché era passata l'ora di cena, guardavo un altro quarto, Uruguay contro Ghana, e di nuovo tifavo convintamente una delle due squadre. Stavolta, per stima verso qualche giocatore, per la maglia, la storia, per tante cose, avevo scelto l'Uruguay (l'Uruguay, per me, è Francescoli e Aguilera: e come si fa a non amarli?). Di nuovo l'intreccio della partita poneva in grave difficoltà la mia squadra, sorpresa da un avversario mediocre, forse anche impaurita, di certo punita da un gol casuale. Come sedici anni prima, tuttavia, ho assistito ad una reazione, un pareggio, il dominio dei "miei", capaci di creare e sciupare palle gol gigantesche; e come sedici anni prima, come spesso nel calcio, meritare ed essere migliori sembrava non valere nulla, perché, per una serie difficilmente ripetibile di avvenimenti, gli africani ricevevano un rigore all'ultimo minuto dei supplementari. Com'è noto, però, l'hanno sbagliato; e stavolta i rigori hanno spinto avanti i migliori, e soprattutto i miei.
Mentre uscivo di casa dopo la partita mi è tornata alla mente l'altra sfida, quella di sedici anni fa, mi sono tornate alla mente le mie notti rumene frustrate, quel pianto e quella disperazione. Allora però ero un ragazzetto piccolo e vuoto, e avevo tutto davanti; la scuola, la vita, la speranza, tutto quello che ti fa dimenticare le lacrime e le sconfitte. Ogni tanto, parlando di calcio, ho nominato quella Romania sfortunata; ma era solo il vago lontano rimpianto di un ragazzo sereno.
Viceversa, oggi, non vedo nulla davanti a me. Nulla in cui sperare, perlomeno; nulla in cui sperare con un minimo di ragionevolezza, solo frammenti di passati inseguiti e mai raggiunti, o toccati appena e divenuti futuri sghembi e inabitabili. Eppure quel rigore sbagliato, quella partita vinta, mi hanno tirato su di morale: forse, ho pensato, è un segno di qualcosa. O forse basta poco per rendermi felice.
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