09 dicembre 2010

L'ultimo nomade

L'ultimo nomade arriva un giorno, forse cavalcando, al margine nordorientale d'Italia. Come lui sono giunti a bussare a quella porta, nei secoli, centinaia di migliaia di altri nomadi; ma non ce ne saranno altri. È l'aggettivo a garantirlo: lui è l'ultimo.
L'ultimo nomade, come tutti i precedenti, sogna di arrivare a Roma, città di cui ha sentito parlare da chissà chi e chissà dove, nei piatti deserti della sua infanzia. Verrà fuori poi, col tempo, che nella lingua dei nomadi Roma equivale a dire: oro, sogno, brama, donne, desiderio, zucchero e bisogno. Quando gli chiederanno come possano tutte queste cose esser suggerite e contenute dall'idea di una città, Timo ribatterà, stupito: "Città?". Timo (così, appunto, si chiama il nomade) sa cos'è Roma, ma non sa ancora cosa sia una città.
Ma come è arrivato fin qui? In Ungheria l'hanno forse guardato con simpatia, riconoscendo in lui un archetipo antico; in Slovenia invece hanno applicato il Trattato di Schengen, che stabilisce precisamente che chi va bene agli ungheresi deve andar bene anche agli sloveni; questa, almeno, è l'ipotesi degli investigatori. Al confine italiano, tuttavia, lo fermano, gli sequestrano il cavallo e gli notificano che in Italia il nomadismo, la razzia e il sogno sfrenato non hanno diritto di cittadinanza. Timo, l'ultimo nomade, non sa che fare; poi trova lavoro in un forno a Grado. Ogni tanto la proprietaria lo sorprende mentre digrigna i denti e brandisce un pane francese, e allora capisce che sta entrando a Roma ed evita di infastidirlo.
La gente a Grado gli chiede da dove viene. Lui fa un gesto con la mano, verso l'altra parte del golfo. "Vieni da Trieste?", gli domandano. Ma Timo viene da più a oriente. Gli nominano altri posti, appena dietro Trieste o parecchio più a Est. Ma lui dice che no, non sono neanche quelli i suoi luoghi. Allora i curiosi tacciono, perché non sanno più che chiedere. Tace anche Timo, perché non sa spiegarsi. Si guardano.
Una notte, prima di andare al lavoro, Timo è sulla spiaggia e passeggia con una ragazza bionda. L'ultimo nomade si fa dire dalla ragazza i nomi delle stelle, poi fa per aprire bocca, ma tace. Allora lei gli domanda cosa stesse per dire; lui risponde che voleva solo dirle che lei è bella. La ragazza sorride, ma Timo mente. Quello che Timo voleva dire è che quelle stelle, il Grosso Orso e l'Orso Più Piccolo, lui le vorrebbe sopra la sua testa una notte all'Aventino, quando finalmente sarà arrivato a Roma e dormirà all'aperto su un prato, davanti ad una chiesa. L'ultimo nomade non sa nulla dell'Aventino, ma gli piace il nome e crede che là sopra ci siano più stelle; e sa purtroppo che finché non sarà a Roma anche l'amore che sente per questa ragazza bionda sarà uguale ai nostri amori imperfetti di sedentari, che sono sempre almeno in parte una richiesta d'aiuto e di sostegno, una cura, un'abitudine, una fuga.
L'ultimo nomade, che ha visto da bimbo le notti limpide dei deserti ghiacciati, sogna invece una notte stellata sull'Aventino e l'amore senza nuvole.

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