Elogio delle piccole città
Ci sono tramonti primaverili in cui la luce calda del giorno si attenua e smette di colpire alla testa, e illumina soltanto, e tutto appare più vero e più evidente; in quei momenti, può capitarti di riflettere su cose che fino ad allora avevi sempre sentito, ma mai davvero saputo.
Una di queste improvvise certezze mi è apparsa mentre lasciavo una cittadina di mezza montagna, tanto simile alla mia; entrambe sferzate dal vento, entrambe fatte di mattone e pietra chiara e chiuse da mura rossicce. Entrambe, soprattutto, piccole, chiuse e definite nei loro bastioni, senza alcuna presunzione di essere complete. La mia sensazione, che mi azzardo a definire certezza, è stata proprio questa: che il provenire da una piccola città o da un paese mi abbia dato, e dia in generale nella vita, molto più di quanto abbia potuto togliermi la ristrettezza (lato sensu) dei suoi orizzonti.
Quando cresci in una piccola città, infatti, ti abitui ben presto all'idea che non sia tutto lì; per quanto il tuo presente di bambino e ragazzo viva e si esaurisca dentro quelle mura, è la chiarezza stessa del confine a suggerirti che il mondo va ben oltre quel circuito; e quando sali sul parapetto e ti affacci verso valle, verso quella miriade di colline e paesi, ognuno dei quali con un nome e con una storia che ispira curiosità, pensi che quel mondo è quello che ti aspetta e quello che forse un giorno ti apparterrà, sotto qualche forma che ignori. Chi nasce in una città, invece, può scambiare l'enormità dei confini e delle distanze per completezza, e decidere che quella prima patria basta a se stessa, e che il mondo di fuori non esiste o non interessa. L'indeterminatezza dei limiti crea una nebbia al confine della città, da cui diventa difficile uscire: si può farlo fisicamente, ma è difficile farlo anche con la testa. La grandezza relativa, infatti, ci mette poco a diventare assoluta; è d'altronde il vizio peggiore e principale dei tempi che viviamo. Se ti aggiri per un paese, al contrario, sai già da piccolo che te ne andrai; quelle mura non ti trattengono, ma ti definiscono, e non sono il recinto in cui pascolerai, bensì l'immagine sicura che non ti abbandona, ovunque dovrà portarti la vita.
Essere di una piccola città significa inoltre conoscere realtà più antiche e rispettabili, fissate da regole perdute nel tempo più che dalle mode, e parlare un dialetto migliore e più preciso; il paese ignora inoltre più a lungo le vacuità che vincono nelle grandi città e che arrivano, perfino più superficiali e rozze, nei centri di provincia. Non basta questo a salvarti, perché alla lunga non si salva niente e nessuno, ma ti dona dei filtri più efficienti, se hai l'accortezza di usarli.
Perciò ci sono sere di primavera che, come diceva il poeta, risvegliano desideri e immagini di casa: immagini di un sole splendente e fresco che getta la sua ultima luce, limpidissima, su un borgo in collina; ma quella nostalgia muta presto in un ricordo sorridente e quieto e in una dolce gratitudine alla sorte felice che ti ha scelto quella patria.
categorie: lonely-marken, raccontini, sensazioni
Una di queste improvvise certezze mi è apparsa mentre lasciavo una cittadina di mezza montagna, tanto simile alla mia; entrambe sferzate dal vento, entrambe fatte di mattone e pietra chiara e chiuse da mura rossicce. Entrambe, soprattutto, piccole, chiuse e definite nei loro bastioni, senza alcuna presunzione di essere complete. La mia sensazione, che mi azzardo a definire certezza, è stata proprio questa: che il provenire da una piccola città o da un paese mi abbia dato, e dia in generale nella vita, molto più di quanto abbia potuto togliermi la ristrettezza (lato sensu) dei suoi orizzonti.
Quando cresci in una piccola città, infatti, ti abitui ben presto all'idea che non sia tutto lì; per quanto il tuo presente di bambino e ragazzo viva e si esaurisca dentro quelle mura, è la chiarezza stessa del confine a suggerirti che il mondo va ben oltre quel circuito; e quando sali sul parapetto e ti affacci verso valle, verso quella miriade di colline e paesi, ognuno dei quali con un nome e con una storia che ispira curiosità, pensi che quel mondo è quello che ti aspetta e quello che forse un giorno ti apparterrà, sotto qualche forma che ignori. Chi nasce in una città, invece, può scambiare l'enormità dei confini e delle distanze per completezza, e decidere che quella prima patria basta a se stessa, e che il mondo di fuori non esiste o non interessa. L'indeterminatezza dei limiti crea una nebbia al confine della città, da cui diventa difficile uscire: si può farlo fisicamente, ma è difficile farlo anche con la testa. La grandezza relativa, infatti, ci mette poco a diventare assoluta; è d'altronde il vizio peggiore e principale dei tempi che viviamo. Se ti aggiri per un paese, al contrario, sai già da piccolo che te ne andrai; quelle mura non ti trattengono, ma ti definiscono, e non sono il recinto in cui pascolerai, bensì l'immagine sicura che non ti abbandona, ovunque dovrà portarti la vita.
Essere di una piccola città significa inoltre conoscere realtà più antiche e rispettabili, fissate da regole perdute nel tempo più che dalle mode, e parlare un dialetto migliore e più preciso; il paese ignora inoltre più a lungo le vacuità che vincono nelle grandi città e che arrivano, perfino più superficiali e rozze, nei centri di provincia. Non basta questo a salvarti, perché alla lunga non si salva niente e nessuno, ma ti dona dei filtri più efficienti, se hai l'accortezza di usarli.
Perciò ci sono sere di primavera che, come diceva il poeta, risvegliano desideri e immagini di casa: immagini di un sole splendente e fresco che getta la sua ultima luce, limpidissima, su un borgo in collina; ma quella nostalgia muta presto in un ricordo sorridente e quieto e in una dolce gratitudine alla sorte felice che ti ha scelto quella patria.
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